Carlo
aveva smesso di crederci all'improvviso.
Per
molti aveva mollato troppo presto, secondo lui, invece, aveva aspettato pure
troppo. Non sapeva dire bene quando era successo, ma era certo che fu come se
qualcuno, in un preciso istante, avesse spento la luce con un click.
Da
quel momento una sensazione di serenità lo aveva avvolto nelle sue calde
braccia ed ora lui dormiva lunghi sonni senza sogni.
In
realtà, se solo avesse voluto, avrebbe ritrovato quel momento in cui tutto si
era affievolito semplicemente risalendo la corrente della sua memoria. Se
solo avesse voluto, avrebbe potuto rivivere quel giorno in cui aveva smarrito
il gusto del sogno, quell'attimo nel quale la fantasia più profonda si era
palesata davanti ai suoi occhi, trasformata in semplice realtà.
Poteva
essere successo quando Rita, una cara amica di famiglia che lo accudiva quando
i suoi erano al lavoro in città, gli aveva succhiato via la fanciullesca
adolescenza in un afoso pomeriggio a Torvajanica? Oppure
quando aveva iniziato a rubare di nascosto le Mildesorte della madre, nascondendone
ogni giorno un paio all'interno della plafoniera dell'ascensore?
Probabilmente
contava anche quella volta che gli spaccarono la testa a catenate perché voleva
difendere una ragazzina del suo quartiere da tre coatti più grandi di lui,
oppure, su tutte, quella volta che aveva capito che l'impegno dei suoi compagni
si era trasformato in un passatempo alternativo, dove miliardi di parole in
politichese non descrivevano neanche lontanamente gli sguardi dei contadini
dell'alto Lazio.
Insomma,
di motivi per analizzare la sua nuova condizione ce n'erano, eccome, ma da
tempo non si poneva più domande e invece preferiva passare i pomeriggi a
sorseggiare lentamente un bicchiere di vermentino, guardando nel cielo
l'evoluzioni dei gabbiani sopra il campanile della chiesa.
Lo
affascinavano i gabbiani, con quel loro modo di volare riuniti in gruppo e con
quelle lunghe soste solitarie sulle cime dei campanili, con quella sfida
continua alla forza di gravità che cercava di impedire al loro grosso corpo primitivo
di starsene liberi nell'aria del domani, con quelle emissioni di suoni che
privilegiavano la sostanza armonica anziché la forma melodica, con quel loro
apparire anomalo, lontani dal mare eppure così a proprio agio nel contesto.
Ma
come fanno... pensava Carlo, che non si era mai riuscito a dare una risposta,
proprio come quando pensava al perché non comprendeva più i suoi simili, che
costituivano fragili gruppi momentanei, che privilegiavano il suono delle
parole anziché la forza dei loro contenuti, che non sapevano più godersi un
momento di piacere seduti nel bel mezzo della loro solitudine e che anzi
giravano in continuazione intorno al proprio io, stordendolo di parole fasulle,
riempiendo i silenzi di richieste di amicizie fittizie, mostrando fotografie
impalpabili che prendevano il posto del loro reale profilo.
Era
stanco, e si smarriva pensando da quanto tempo tutto questo andava avanti.
Ricordava
con piacere quei momenti in cui assistiva i suoi mattacchioni, quelli che gli
altri chiamavano freddamente "i diversamente abili", perché a dire
matti si mancava di rispetto, quando riusciva a parlare con un semplice
sguardo, quando sentiva vibrare la comunicazione più profonda nei pochi segni
scarabocchiati su un foglio a quadretti, quando percepiva, in maniera concreta
più che mai, l'affetto e le mille parole di solidarietà espresse in uno
scomposto abbraccio, in un rivolo di bava che nascondeva un sorriso aperto.
Ora
solo il silenzio, circondato da fantocci vivi che non pensano alla morte, assediato
da cadaveri ambulanti che non sanno cos'è la vita.
Ma
perché ci stò pensando adesso, si domandava, e poi che cazzo ci fanno i
gabbiani a Centocelle?
Il
flusso dei suoi pensieri si interruppe quando si avvicinò la ragazza del bar,
che con uno straccetto in mano gli disse che stavano chiudendo.
Mentre
lei strofinava per bene il tavolino al quale Carlo era seduto, un seno quasi
gli uscì dalla striminzita canottiera, ma lui non lo degnò di attenzione,
perché era attratto da quei pochi peli che le intravedeva sotto le ascelle.
Erano
anni che non vedeva un ciuffetto di peli addosso ad una ragazza, e si alzò
sereno, con una sensazione di condivisione intima e privata, ricca di tanta
naturalezza. Si sentiva vivo come una bestia selvaggia, scovava la vita vera
che si nascondeva negli anfratti del quotidiano e, come un segugio dell'anima,
percepiva nell'aria la trasformazione, in atto.
Quando
arrivò a casa non mangiò nulla, non dedicò la solita mezz'ora all'igiene dei
suoi denti e si
buttò sul letto esausto.
Aveva
il cuore stanco Carlo, braccato dall'altra metà di se stesso ed in quella
tempesta emozionale, i suoi denti
neanche li sentiva.
Cadde
in un sonno profondo, e sognò che correva in un viale alberato, e più andava
avanti e più diventava piccolo e correva così veloce che, anche se non aveva
preso il volo, una sensazione di leggerezza lo avvolgeva.
Dopo
aver saltato, senza alcuna fatica, buche insidiose, falsi ponti levatoi e
meschini trabocchetti, si trovò davanti ad una porta semplice e maestosa, che
sopra aveva iscritto "Cor Magis Tibi Siena Pandit".
Fece
qualche altro passo, con l'eco di quella frase che gli risuonava nella testa,
fino ad arrivare ad una fortezza, che brillava di luce propria nella sua
semplice imponenza, che avrebbe potuto incutere timore se fosse stata osservata
con gli occhi di uno stolto ma che ai suoi occhi, tornati puri e bambini,
appariva come un'accogliente ventre materno.
Appena
mise un piede dentro, si svegliò.
Aprì
un poco gli occhi, restando immobile per cercare di far risalire almeno l'eco
di quel sogno ma trovò solo la sua prepotente erezione e si masturbò.
Appena
in piedi non sentì alcun'altro bisogno.
Sotto la doccia raccolse i pensieri e
subito dopo vendette la sua casa, donò i suoi dischi, inviò un fiore reciso
alla sua donna, non avvisò al lavoro, comprò un biglietto di sola andata e partì.
Nessuno
da allora li vide più...
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Tutte le immagini sono di
Antonio Ligabue 1899 - 1965
sante parole.
RispondiEliminaThankss for a great read
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