“io voglio il fischio dell’ancia di
Charlie Parker”
Questa
intervista, di oramai quasi dieci anni fa, è scomparsa dalla rete per via della
chiusura della piattaforma Splinder. La ripropongo ora sia perché la Philology è ancora
attiva, con una produzione molto più diluita ma non per questo meno importante
(vedi l’inedito “Live at Jazz Club La
Mela ” del Massimo Urbani Quartet), sia perché le parole di
Paolo Piangiarelli lasciano ancora spazio ad attuali riflessioni.
Buona
lettura!
LUNEDÌ, 29 SETTEMBRE 2008
Vi
ho già iniziato a raccontare come, secondo me, la produzione su disco del Jazz
italiano, vive la sua stagione d’oro tra gli anni ’70 e gli inizi dei ’90,
grazie soprattutto all’impegno ed alla passione di alcuni “piccoli” produttori
indipendenti, dal momento che le grandi major si sono interessate tardi - e
sempre poco - al fenomeno (vedi #ItalianJazzLabels).
Della
HORO di Aldo Sinesio (1972), probabilmente la prima e che resta tra le più
prestigiose, avete letto gli inizi, le scelte ed i famosi confronti.
In
quegli stessi anni (i master su nastro partono dal ’68 anche se la prima
produzione su disco è del ’77) troviamo il pianista Tito Fontana con la sua
raffinata etichetta DIRE, che si prodigava ad incidere il meglio del Jazz di
casa nostra.
Del
1975 è la prima incisione della serie Jazz from Italy, curata da Lino Patruno e
Giancarlo Pillot per la Carosello ,
che spazierà dal Jazz tradizionale agli inediti progetti di grandi solisti
italiani, registrando molto spesso con ospiti internazionali di grande livello.
Nel
1976 nasce la Red Records
di Sergio Veschi, che si contraddistingue per l’alta qualità artistica e
tecnica delle sue produzioni e, subito dopo (1979) la Soul Note di Giovanni
Bonandrini, che nasce in seno alla Black Saint di Giacomo Pellicciotti dedicata
più rigorosamente all’avanguardia, al quale dobbiamo il merito di aprire al
panorama italico un’importante finestra sulle produzioni jazz internazionali.
Per
ultima, ma solo in ordine di tempo, nasce la SPLASC (H) di Peppo Spagnoli, quasi casualmente
nel 1982, che documenterà le varie realtà del nuovo Jazz italiano, dimostrando
vera passione e vasta ampiezza di vedute registrando l’opera prima di Paolo
Fresu, i debutti di Pietro Tonolo, Riccardo Fassi e Stefano Battaglia ma anche
i grandi protagonisti del nostro jazz, come Gianni Basso, Guido Manusardi,
Giorgio Azzolini, Gianluigi Trovesi, Mario Schiano etc, etc.
A
parte altre labels, con minore diffusione e di breve vita professionale, come la Ictus di Andrea Centazzo, la Gala Records , la CMC , la Cecma , la Pentaflower , la Bull Records e la Edi-Pan , roba quasi
introvabile sul mercato, insomma, e qualche sortita di etichette dedicate
perlopiù ad altro, come la PDU
o la Voce del
Padrone, la Storia
del Jazz italiano di quei magnifici vent’anni è tutta qui.
Una
manciata di labels con dietro un’idea ed un’etica di produzione, per la maggior
parte in studio. Questa
è già una grande cosa per un paese "piccolo" come il nostro, dove per
anni la musica Jazz è stata “ai margini” del music business, relegata sui
piccoli palcoscenici e promossa solo sulla stampa specializzata, ma mancava il
respiro del Jazz, l’invenzione unica e irripetibile, la documentazione del
miracolo creativo che è la fonte di questa musica, “il momento quello” come ha
detto quel grande poeta improvvisatore che è Victor Cavallo.
Poi
finalmente, un uomo innamorato profondamente del Jazz, un fan appassionato dei
grandi Maestri di questa che è, anche per me, la musica più bella, un
personaggio unico, folle e coraggioso, inventa lì sul momento, senza filtri artificiali
o frigidi pensieri esclusivi di “produzione produttiva”, quella che è
l’etichetta più vicina al corpo del Jazz, che si fa strumento concreto per raggiungere
l’anima e, nel luglio del 1987, nasce la PHILOLOGY di Paolo Piangiarelli.
«
Perché faccio dischi così belli? Perché lo amo il Jazz, tanto e da sempre, da
più di cinquant’anni, come e forse più di voi e nel 1987 ho deciso di farli io
i dischi di jazz, quelli che non vedevo sul mercato, quelli che avrei voluto
che altri facessero per me ma non li facevano…».
Così
Paolo Piangiarelli presenta la sua avventura, così descrive un sogno che il suo
amore, il suo impegno e la sua grande capacità relazionale umana hanno
trasformato in una delle realtà più importanti del panorama musicale. Ed il
vastissimo catalogo della PHILOLOGY, testimonia tutto questo e rappresenta in
maniera concreta la sua filosofia e quella della sua amata creatura.
Il
nome scelto ed il logo stesso, sono una dichiarata dedica ad uno dei suoi eroi,
quel Phil Woods che al sax contralto ha continuato la lezione di Charlie
Parker, non emulandolo o, semplicemente rendendogli omaggio - e tutti gliene
dobbiamo - ma ponendosi come continuatore della sua musica, come discendente
diretto e come il miglior rappresentante, a mio parere, dell’evoluzione che la
musica di Bird avrebbe mai potuto avere se lui non ci avesse lasciato così
presto. E
non è un caso che sia proprio uno dei suoi idoli a dare il via alla grande
produzione che Piangiarelli metterà on air fino ad oggi.
Il
catalogo si apre proprio con tre LP del Phil Woods Quartet (con Mike Melillo,
Steve Gilmore e Bill Goodwin) in quel magnifico THE MACERATA CONCERT [1]
registrato al Teatro Lauro Rossi nel Novembre del 1980.
Paolo
cercherà di incidere e pubblicare la musica di Phil nelle combinazioni più
varie possibili, sempre di alto livello artistico e di grande creatività. Come
in "THE BIRTH OF THE ERM" [2] con la European Rhythm
Machine, nel "MEMORIAL CHARLIE PARKER" [3] o con la Big Bang Orchestra di
Mario Raja [4] .
Nel
box con i tre LP registrati dal Phil Woods Quartet a Macerata, trova spazio un
bellissimo booklet ed anche una dettagliata discografia del contraltista di
Springfield, redatta da Piangiarelli stesso.
Questo
dello studio, dell’archiviazione, del dettaglio, è un altro caposaldo
dell’etichetta, che chiaramente dichiara la sua ricerca filologica nello stesso
nome, ed aggiunge un dettaglio chiarificatore nella filosofia della PHILOLOGY.
Piangiarelli
infatti ritiene che bisogna presentare le session così come sono, nella loro
reale naturalezza, perché crede che tutto quello che accade durante le
improvvisazioni fa parte del processo creativo e per questo deve essere
presentato nella sua relativa integrità.
La
ricerca di inediti per la presentazione al pubblico degli appassionati di tutta
la musica registrata dai grandi Maestri del Jazz, è un’altra sfaccettatura che
caratterizza la produzione della PHILOLOGY e gli dona visibilità
internazionale.
Infatti,
come un “piccolo” Dean Benedetti, Paolo parte alla ricerca di nastri inediti
dei suoi idoli, pubblicando Bird’s Eyes [5], LP con inediti di Charlie Parker
che inaugura una serie che nel tempo raggiungerà oltre venticinque volumi, poi
Prez’s Hat [6], con inediti del grande Lester Young che si protrarrà in altri
cinque volumi ed anche un bellissimo LP con inediti di Clifford Brown e Chet
Baker [7].
Questa
operazione genererà non pochi dibattiti tra gli appassionati ed anche alcune
polemiche sulle colonne del mensile Musica Jazz, essendo questi nastri
provenienti da registrazioni private (quella di Brown addirittura incisa da lui
stesso a casa sua) e non perfetti dal punto di vista della qualità sonora.
Ovviamente
non tutti amano il Jazz così profondamente come Paolo Piangiarelli e non tutti
hanno ancora compreso che la documentazione su disco del Jazz, di questa musica
che si nutre dell’invenzione e del cambiamento continuo, che ha fatto
dell’improvvisazione la sua genialità compositiva è, non solo utile e bella, ma
necessaria per affrontare il futuro, conoscendo il passato.
Bastano
poche righe scritte da Marcello Piras, per far comprendere meglio di molte
spiegazioni l’importanza di queste pubblicazioni: «la
questione non è oziosa. Ormai sta finendo un’epoca: finora sono stati i privati
a salvare dal naufragio i sacri testi del Jazz. Senza dubbio, considerati per
quello che sono, un documento, questi nastri sono davvero qualcosa di unico,
che non meritava di finire nella spazzatura. Era importante che questo
materiale non andasse perduto: bene ha fatto chi lo ha portato finalmente alla
luce del sole». [8]
Ma
torniamo a noi, al tema portante di questo scritto, alle produzioni PHILOLOGY
ed alla dedizione di Piangiarelli per i suoi idoli. Ho
appena accennato il nome di Chet Baker, ma questo è un nome importante nella
musica Jazz ed ha un posto di rilievo, come merita, anche nella produzione di
Paolo.
Il
primo è uno dei migliori LIVE del trombettista di Yale, registrato nel 1985 al
Moonlight Club di Macerata [9] con Massimo Moriconi (bass) e Michel Grailler
(p), un disco intimo dove Chet affronta con una dolcezza unica e con tempi
estremamente dilatati alcuni dei pezzi che più amava. My
Funny Valentine, How Deep is the Ocean, My Foolish Heart, Estate. "Sempre gli
stessi pezzi" che sembrano ogni volta sconosciuti, le “canzoni semplici”
che la sua voce sublima in pura poesia, le melodie note ogni volta ritrovate
come nuove dal suo respirare nella tromba.
Un
disco bellissimo, vero e proprio LIVE CULT, reso unico da una discografia
cronologica e da delle liner notes a firma dello stesso amico e produttore che
sanno più di un assolo in Jam, di una libera improvvisazione su tema che di una
lettura “critica” del concerto.
Qualche
anno dopo Paolo invita Chet ad incidere due dischi memorabili e, purtroppo, gli
ultimi della produzione in studio di Baker.
Tra
la fine del febbraio ed i primi di marzo 1988 nascono per la PHILOLOGY “The Heart of
the Ballad” [10] in duo con Enrico Pieranunzi e “Little Girl Blue” [11] in
quartetto con lo Space Trio del pianista romano. Anche qui l’atmosfera è delle
migliori ed il risultato è sublime grazie anche alla scelta dei temi e
soprattutto all’ispirazione dei musicisti.
Nella
riedizione in CD, Piangiarelli include tre take di “But Beautiful” la splendida
ballad di Jimmy van Heusen, più la quarta che era quella usata nella prima
stampa dell’LP.
Ascoltando
tutte e quattro le tracce di seguito, si ha la fortuna di assistere alla
nascita di uno dei gioielli che Chet sapeva donare, senza chiedere mai niente
in cambio. Perché, anche secondo me, nessun suono di Chet deve andare perduto,
perché ognuno è una rara gemma, e questo lo dobbiamo anche a uomini come Paolo
Piangiarelli.
Postumi
escono tutti i nastri che questo appassionato fan/produttore ha inciso nel
tempo o recuperato e salvato dall’oblio.
“Seven
Faces of Valentine” [12] e “Naima: Unusual Chet” [13] sono due raccolte di
tracce live che vanno dal 1975 al ’87, la prima dedicata interamente alle
innumerevoli versioni del classico di Rodgers & Hart, con diversi
accompagnatori.
Successivamente
ha pubblicato un live in due volumi registrato al Club 21 di Parigi [14] ed il
concerto “A Night at the Shalimar” [15] con Nicola Stilo, Furio Di Castri e
Mike Melillo e Luca Flores alternati al pianoforte.
Due
mesi dopo la tragica scomparsa di Chet Baker, la PHILOLOGY produce un sincero
omaggio alla musica ed un saluto allo spirito di Chet, incidendo con Tiziana
Ghiglioni e Mike Melillo l'intenso “Goodbye, Chet” [16]. Il
disco presenta anche due inedite versioni di “Lament”, incise da Chet Baker con
il quartetto di Tiziana Ghiglioni al festival di Bari nel 1985, unica traccia
registrata dal nostro “emulo” di Dean Benedetti con il suo Sony tascabile, di
quel mancato incontro discografico tra i due.
Nel
novembre 1989, grazie a Paolo Piangiarelli esce, allegato a Musica Jazz, “the
Newport Years vol.1” [17], che propone registrazioni inedite di Baker al famoso
jazz festival del 1955. Questo documento permette di ascoltare la tromba di
Chet Baker in duo con Caterina Valente (voce e chitarra) al festival tedesco di
Baden-Baden nel ’56. Altri inediti di quello stesso anno, registrati a
Copenhagen ed a Mainz, erano stati pubblicati dalla Philology in “Chet in
Europe, 1955”
[17/b]
Lo
stesso produttore, qualche anno dopo, mette a disposizione delle registrazioni
inedite di Baker in Italia tra il ’75 ed il 1988 per l’allegato di Musica Jazz
dedicato a Chet Baker.
Tra
queste c’è una perla, il SOLAR di Miles Davis, registrato da Chet Baker a
Torino il 21 aprile 1988 con Enrico Rava, Massimo Urbani e Franco D’Andrea.
Insomma,
un rapporto vero e duraturo, quello tra Paolo & Chet, uno scambio di
affetti e di intenti, un’amicizia ed un rispetto unico, molto
di più che un rapporto professionale.
Lo
stesso che lega questo “anomalo” produttore ad un altro dei suoi eroi ai quali
la sua etichetta musicale è dedicata, Lee Konitz, l’unico saxofonista che negli
anni ’50 aveva già uno stile personale così originale che gli permise di
restare “del tutto indifferente” alla prepotente influenza di Bird.
Nello
stesso anno Piangiarelli licenzia “Solitudes” [19], dove propone il lirico
pianoforte di Pieranunzi come unico compagno del sax di Lee Konitz, realizzando
un album di ballad dello stesso sapore agrodolce del magico duo con Chet Baker.
Da
quel momento in poi, Paolo riserva a Lee lo stesso trattamento filologico che
ha nei confronti dei suoi idoli, registrando il solismo unico di Konitz nelle
più diverse espressioni, dall’orchestra ai dischi più intimi in duo con i più
interessanti pianisti di casa nostra come D’Andrea, Sellani, Umberto Petrin,
Stefano Battaglia, fino al particolarissimo “Self Portrait” [20] dove il
Maestro del sax alto, registrando in solitario, sovraincide la voce del suo
strumento fino a quattro volte, improvvisando sempre, prima sul tema scelto e,
successivamente, sulle sue stesse improvvisazioni.
Poi
c’è l’incontro con un grande trombettista del nostro paese, uno dei più
interessanti uomini del jazz. Nel
1997, Lee Konitz incontra di nuovo in uno studio di registrazione Enrico Rava,
con il quale aveva inciso il suo primo disco in Italia, quasi trent’anni prima,
quel memorabile “StereoKonitz” [21] con il complesso di Giovanni Tommaso.
Per
Piangiarelli i due incidono “L’Age Mur” [22], “un vero disco di Jazz, uno di
quelli che forse nessuno fa più ai nostri giorni…” come dice Rava nelle note di
copertina.
Enrico
Rava è da sempre, insieme a Chet, il trombettista favorito di Paolo. La sua
label lo aveva già avuto come gradito ospite delle sue produzioni nel ’90, con
Pieranunzi, Enzo Pietropaoli al basso e Roberto Gatto [23]. Per
Piangiarelli, come in tutti i suoi rapporti “professionali”, è ancora il cuore
a dettare le nuove direzioni della PHILOLOGY.
Nel
1999 incide “Rava plays Rava” [24], che rappresenta il primo capitolo del
Rava’s Songbook, in duo con un giovane pianista, che nello stesso anno aveva
inciso il primo disco a suo nome [25] proprio in casa PHILOLOGY.
Nel novembre
2000 Piangiarelli organizza l’incontro di Rava con Renato Sellani, uno dei più
eleganti pianisti italiani, con un senso dello swing ed una capacità poetica
innata e naturale, che darà alla luce due album, il primo dei quali, “Radio
Days” affronta il repertorio della canzone italiana, nel modo più lirico e
bello che possiate immaginare.
“Donna”
di Kramer, “Roma nun fa la stupida stasera” di Trovajoli, “Arrivederci” di
Bindi e poi Le tue mani, Ma l’amore no, Amore baciami ed altre, vengono
presentate spogliate di tutto il superfluo, restituite con l’essenza della
melodia, con il profumo dei ricordi.
Un
disco affascinante e prezioso.
Qualche
mese dopo i due si ritrovano, sempre al Mu Rec Studio di Milano, ed incidono
un’altra perla della PHILOLOGY.
“Le
Cose Inutili”, parte dallo stesso assunto del precedente, ma si confronta con
la canzone americana. Una
manciata di standard proposti in una luce che smussa gli angoli, con una veste
che accende il desiderio, con una semplicità che, in questo raro caso, è
sinonimo di grandezza.
Successivamente
c’è l’incontro di Rava con i due mostri sacri di Piangiarelli, Phil Woods e Lee
Konitz. L’aveva
detto Paolo “…ho deciso di farli io i dischi di jazz, quelli che non vedevo sul
mercato, quelli che avrei voluto che altri facessero per me…”
E
sarà ancora Enrico Rava a fare “da ponte” ad un altro amore musicale di Paolo
Piangiarelli, che nel 1977 registra il trombettista in concerto all’Arena
Sferisterio di Macerata [26].
Su
quel palco, oltre a lui, c’è Jean-François Jenny-Clark al basso, Aldo Romano
alla batteria e, soprattutto, Massimo Urbani al sax alto.
La
sua etichetta discografica doveva ancora nascere, ma Paolo s’innamorò subito di
quel ragazzo, il cui genio era un mistero e, quando nel 1987 nacque la PHILOLOGY , tra i primi
dischi da pubblicare Piangiarelli volle proprio Massimo Urbani, e gli propose
un disco memorabile [27], un duo con Mike Melillo, che non aveva mai incontrato
Urbani e che è stato per anni il pianista di Phil Woods, di totale
improvvisazione per Bird.
Non
un disco su Bird o sulla sua musica, ma proprio per Bird, forse l’unico disco
di Massimo Urbani apertamente dedicato a Charlie Parker.
Max
non incide neanche una traccia delle composizioni a firma di Parker, anche se
diverse citazioni, fulminee, vengono fuori inaspettatamente fedeli agli
impossibili originali sempre cangianti, ma suona tutti gli standard a lui cari,
non interpretando la musica di Parker ma respirando à la Bird , seguendo l’ebbrezza dei
suoi voli irraggiungibili ed anche il rischio delle sue cadute verso il basso,
nella geniale forma improvvisata tanto cara a Bird, quanto a Max.
“Lover
Man”, “Out of Nowhere”, “What is this Thing Called Love”, I’ll Remember April”
si formano nell’aria con enorme rispetto della canzone stessa, suonate con
l’intensità che è solo dei grandi solisti, con un gusto per l’avventura
musicale che non è mirabolante o fantasmagorica, ma indaga tra le pieghe
semplici della composizione, illumina gli angoli più nascosti, ricerca con
sobrietà e naturalezza fino a trovare la Poesia , sempre nuova, che solo i puri o gli
innamorati sanno pronunciare. Poi
arriva il brano “The Gypsy”, di William Gordon Reid, e tutto il disco prende la
forma di un capolavoro.
“…quando
gli ho chiesto di suonare The Gypsy, che è un brano che lo stesso Parker ha
suonato una sola volta nella seduta storica e drammatica di Lover Man, Massimo
non lo aveva mai sentito. Glielo feci sentire io in studio, una volta sola, e
lui l’ha suonato subito dopo ad orecchio, l’ha suonato incerto come quello di
Parker, due versioni entusiasmanti. Parker
suonò a stento la melodia di The Gypsy perché stava male, la suonò usando
appena le note fondamentali del tema, era al minimo delle sue possibilità ed al
massimo della sua creatività. Ho tenuto presente quella seduta di Parker.
Massimo suonando quel pezzo, ha accettato la sfida e si è messo nella
condizione psicologica di Parker. Erano tutti e due in un momento di
impedimento: Parker non aveva facoltà mentali giuste in quel momento, Massimo
non conosceva il pezzo; entrambi hanno fatto un capolavoro di un brano che non
avevano mai suonato.” [28]
Questo resterà, purtroppo, l’unico disco in studio che Urbani incide con la PHILOLOGY , ma Paolo
continuerà a registrare Max in tutte le occasioni che gli capitano, perché
Piangiarelli non fa progetti a tavolino per la sua etichetta, lui insegue un
sogno, si innamora dell’uomo che c’è dietro lo strumento, si appassiona al
soffio di quello strumento.
Di
Massimo Urbani esce “the Urbisaglia Concert” [29] con una ritmica sconosciuta
ai più e con dei brani che fanno “gridare al miracolo” l’illustre critico
inglese David Waddington. Poi vede la luce la sua partecipazione ad una rara
registrazione del Gaetano Liguori Idea Quintet [30], che colloca il fenomeno
italiano nella storia del jazz. Un disco importante, con un Urbani appena
ventenne eppure già maturo nell’uso dello strumento e nel saper usare il
linguaggio delle emozioni, un disco “inaspettatamente Jazz”, in un periodo dove
i furori del free rivendicavano libertà difficili da raggiungere, con le
splendide voci di Danilo Terenzi al trombone, del leader al pianoforte,
dell’elastico e reiterato creatore di panorami armonici Roberto Del Piano al
basso ed il motore ritmico di Filippo Monico.
Successivamente
esce “Max Leaps In” [31] tra le più esplosive performance del saxofonista
romano qui registrato con Melillo, Massimo Morioni al basso e Tullio De
Piscopo, e “Go Max, Go” [32] registrato con Riccardo Zegna al pianoforte ed “i
veterani” Luciano Milanese al basso e Gianni Cazzola alla batteria.
Ancora
il “Live at Strabacco” [33] registrato benissimo in una piccola osteria, ancora
con un’ignota ritmica - a parte Massimo Manzi alla batteria – e nonostante
questo, o forse proprio per questo, con un Urbani in gran forma, che incide
pezzi infuocati come Red Cross e My Little Suede Shoes di Charlie Parker, e ci
regala una rara My Funny Valentine, vera perla di delicatezza, ed il “Live at
the Supino Jazz Festival” [34] con il grande Luca Flores, che tanto ha suonato
con Massimo.
Poi
c’è il concerto di Bologna registrato con Marcello Tonolo al pianoforte [35]
uscito in concomitanza della prima edizione dell’International Massimo Urbani
Award (Camerino 2004) e “Wild Genius” [36] registrato un anno prima della sua
morte con i grandi Vannucchi, Rosciglione e Gegè Munari, oltre a Maurizio
Urbani e Bob Mover come ospiti.
Piangiarelli
mette a disposizione anche due lunghi live registrati con Enrico Rava, il
furibondo “Flat Fleet” [37] con Franco D’Andrea, Mark Helias al basso e Barry
Altschul alla batteria ed il bellissimo “Live at JazzBO’ 90” [38] con lo stesso D’Andrea
e Giovanni Tommaso e Aldo Romano.
Insomma,
se Massimo in vita ha inciso meno di dieci dischi a suo nome,
qui
ne troviamo altrettanti che ci permettono di conoscere meglio la sua figura, di
apprezzare fino in fondo la sua musica, di affermare la sua grandezza. Questo
il ruolo della PHILOLOGY, questo il sogno di Paolo Piangiarelli.
Oltre
alla passione per questi solisti, veri giganti del Jazz, Paolo ha sempre
dimostrato un grande interesse per i crossover, una curiosità instancabile ed
un fiuto eccezionale. La sua label ha cercato di documentare, stimolare,
indicare i molti punti in comune tra i diversi linguaggi, evidenziando le
affinità e cercando le possibili congiunzioni, tra autori solo apparentemente
distanti come Battisti, Carosone e Bongusto con Sellani o tra il Jazz e le musiche
"altre", come la bossa nova e la musica brasiliana in generale. Il
risultato più toccante si trova nei dischi di Barbara Casini con Phil Woods o
Lee Konitz, passando per l'elegante "Un Anno d'Amore" inciso con il
Maestro Renato Sellani, fino allo splendido, morbido e profumato "Todo o
Amor", primo lavoro a suo nome.
Ma
la storica label ha promosso anche progetti importanti come i due omaggi a
Billie Holiday fatti da Tony Scott, riscoperto sempre da Piangiarelli, ed il
Franco D’Andrea Quartet e, soprattutto direi, il Tenco Project che ha visto
Tiziana Ghiglioni, la migliore delle nostre cantanti Jazz, cimentarsi con il
repertorio di uno dei più particolari autori della canzone italiana.
Ne
è uscito un capolavoro, con un trio di eccezione come Paolo Fresu alla tromba,
Gianluigi Trovesi al sax alto e clarinetto basso e Umberto Petrin al
pianoforte, oltre alla splendida voce di Tiziana.
Dei
progetti futuri della PHILOLOGY ve ne parla direttamente Paolo Piangiarelli
che, grazie ad alcune impetuose telefonate fiume, mi ha permesso di pubblicare la
chiaccherata/intervista che segue.
« Quando la bellezza ti fa paura,
è meglio che tu non lo prendi quel disco, è troppo bello per te, prendi un po’
di merda in giro, che ce n’è tanta » Intervista a Paolo Piangiarelli
Jazz from Italy: Paolo, la
tua label ha prodotto i nomi tutelari del jazz contemporaneo, da più di
vent’anni. Come effettui le tue scelte e quali sono le direzioni della
PHILOLOGY?
Paolo Piangiarelli:
È naturale, cerco di registrarli ogni volta che posso, in situazioni
interessanti, in particolari combinazioni artistiche che siano di stimolo per
il musicista, non faccio dischi banali, credo. Il
fatto che la critica ritiene che io, di un uomo come Konitz faccia troppi
dischi, questa è una affermazione stupida.
E'
come dire, ma se Mozart fosse vissuto più dei trentatre anni che è vissuto,
avrebbe fatto troppe sinfonie? O praticamente qualcuno si sarebbe dispiaciuto
di questo fatto?
Messa
in questi termini, io sento la necessità di fare questi dischi, visto che adoro
Konitz perché lo ritengo uno dei più grandi geni del jazz improvvisato di tutti
i tempi, ed io credo che il jazz non sarebbe tale, non sarebbe grande come è,
se fosse solo scrittura, se non ci fosse l’improvvisazione del grande solista.
Il
Jazz vive ancora di grandi solisti, che sempre meno ci sono, ahimè, e non
potrebbe vivere solo di pagine scritte, questo è il punto. Adesso,
se uno sente il jazz che si produce adesso, si accorge che mancano i grandi
soli... cioè prendi i solisti come Joe Lovano, ma chi sono questi qui, sono
competitivi con l’importanza e la profondità di gente del passato come Lester
Young? è
importante, perché Lovano ha vinto per anni il referendum del downbeat, ma a
che titolo lo ha vinto? Qual è il suo spessore di personalità o di forza
solistica? Questo è vitale, questo punto è fondamentale.
Io
se non ci fossero ancora, e purtroppo dobbiamo parlare di persone ottantenni,
se non ci fosse ancora un Konitz, ci terremmo un Ornette Coleman, con tutto il
rispetto? Onestamente Coleman, che deriva da Konitz, che ha preso tutto da
Konitz, che gli deve il suono, il tentativo di suono, perché adesso lo ha
perso, non ce l’ha più Coleman, è un pigolìo il suo suono e la sua capacità
improvvisativa dov’è?
JfI:
Eppure, per alcuni addetti al settore, Ornette Coleman è un genio della
scrittura.
PP:
Perché la critica ancora riempie le pagine della sua composizione Lonely Woman,
ma scherziamo?
Ha
fatto solo quello, più qualche composizione per i dischi contemporary come
“Something Else!!!!” e “Tomorrow is the Question” e poi in definitiva ci siamo
tenuti il suo quartetto splendido con Charlie Haden e David Izenzon, ed il capolavoro
“Free Jazz” che praticamente resta confinato a se stesso e poi il PRIME TIME,
logorroico quanto altro mai.
Assolutamente
non creativo, non creativo per 30 anni.
E
adesso appena fa un concerto accenna, deve accennare il suo Lonely Woman,
altrimenti non si riconosce e la critica scrive: “..che
bello il momento in cui Ornette ha ridonato il suo solo in Lonely Woman…” è
poco, è veramente poco, io non ci stò più a queste cose. La critica è regredita
a livello infantile.
JfI:
Beh, la critica dovrebbe indicare direzioni, si dovrebbe schierare...
PP:
Ma il disco che ha vinto il Grammy, l’hai ascoltato bene tu? [39]
JfI:
Sinceramente l’ho ascoltato poco...
PP:
È bene per te che non l’hai ascoltato, fai uno sforzo, mettilo su ed ascoltalo
per due tre volte ed alla fine converrai con me, qui ci stiamo prendendo tutti
per il culo, ed io non mi voglio far prendere per il culo.
Allora
mi faccio dei dischi che nell’impostazione sono tradizionali, dove ci sono
ancora i soli, e chiunque li faccia e li prenda, devono essere assoli
importanti.
A
me piacciono i solisti che raccontano qualcosa, che abbiano personalità di
suono e che poi sappiano veramente raccontare delle storie grazie al cuore che
hanno, allo spessore spirituale che hanno ed anche a quello tecnico.
Là
dove la tecnica ce n’è di meno, si può essere ancora dei grandi solisti se si è
come Rava, che ha trasformato le sue “debolezze”, cioè una tecnica non
travolgente, in qualcosa che viene dal profondo, dallo stomaco, Rava ha cominciato
a gridare. Il grido di Rava arriva, va bene?
La
tecnica puoi anche non averla ma devi raccontare qualcosa, sennò ci prendi per
il culo.
JfI:
Io ho un ricordo bellissimo del disco Rava plays Rava.
PP:
È un capolavoro, fatto 5 anni prima che la Label Bleu se ne
accorgesse. Io
sono molto legato a Rava, e lui mi ha sempre voluto bene, ha sempre fatto
dischi per me quando poteva ed anche Bollani, che adesso è diventato quello che
è diventato, ed è difficilissimo fare un disco di Bollani, ma il suo primo
disco da leader, Stefano l’ha fatto con me, era Mambo Italiano con Ares
Tavolazzi.
Insomma
ma allora chi era Bollani, non era ancora noto, e Rava mi disse che aveva
scoperto da poco nel gruppo di Barbara Casini il pianoforte di Bollani e mi
disse “…in questo momento mi piacerebbe avere una voce come la sua nel mio
gruppo perché ancora non lo conosce nessuno…”. Questo
volle Rava, in un disco in cui suona la sua musica, ed io subito lo registrai,
una settimana dopo che lui me lo disse.
Io
ho còlto subito quei momenti, quando un grande musicista mi diceva “adesso mi
piacerebbe questa voce per me”, io non mi sono mai chiesto niente, quanto mi
porta in termini di guadagno o quanto vale questo...
Ma
che me ne frega del guadagno, io faccio i dischi per i posteri e quasi quasi mi
dispiace di venderli agli squallidi, a quelli che non li capiscono o che non
gliene frega niente. Quando la bellezza ti fa paura è meglio che tu non lo
prendi quel disco, è troppo bello per te, prendi un pò di merda in giro che ce
n’è tanta.
JfI:
Questo che dici rispecchia la filosofia della tua produzione e quello che
dicevamo prima dei grandi solisti, cioè se non c’è emozione, se non c’è il
racconto, se non c’è il respiro, non c’è musica.
PP:
Si, perché senza questo criterio non avremmo un genio come Massimo Urbani.
Quanto ha dato al Jazz Urbani? Lui
non sapeva leggere la musica eppure ecco il solista: personalità, suono,
istinto.
Senza
questi, il Jazz è morto, oppure ci terremmo soltanto Winton Marsalis e le sue
rivisitazioni delle orchestre di Ellington o di Fletcher Henderson, adesso. Lui
studia la storia del Jazz, Marsalis, e ce la fa studiare a noi, siamo tutti
tornati scolaretti...
Se
la Lincoln Center
Orchestra, come istituzione, è dedicata solo a questo, a ripassare la storia,
ma ce la facciamo a casa noi, mettiamo i sacri testi e ce li ripassiamo tutti.
Dove stanno i grandi solisti nell’Orchestra di Winton? Non ci sono!
Victor
Goines è un solista di tenore degno dei nomi di cui parlavamo prima, Lester,
Coleman Hawkins? No.
Quell’orchestra è spenta. Lo stesso Winton, secondo me, con il tempo ha perso
il suono, non è più il Winton di una volta. Io
lo preferivo quando stava con Art Blakey e suonava di tecnica e d’istinto e di
cuore e quello che veniva fuori era un magma incandescente.
Dopo
si è punito e pulito tutto ed a quel punto, a me interessa molto meno.
JfI:
Non interessa neanche a me, eppure negli USA ha un posto di assoluto rilievo
nell’albero del Jazz
PP:
Io credo che Winton Marsalis non può rivaleggiare quanto ad espressività con un
trombettista come Rava, ma nemmeno con Bosso, secondo me, anche tecnicamente.
Bosso
ha un calore, è un grande sottovalutato, Fabrizio, lo danno tutti per scontato
perché è un supertecnico, bravissimo, ma vadano nel profondo...
È
entusiasmante quello che suona e quando suona in un teatro lo manda a fuoco
quel teatro lui, perché arriva, arriva quello che suona, i suoi soli sono
bellissimi, è un vero solista ed improvvisa, con un suono magnifico, il suono
di sordina di Bosso non ce l’ha nessuno.
Un
critico americano è rimasto scioccato da Bosso, in una delle poche recensioni
che mi sono state dedicate, non ricordo se su JazzTime o DOWNBEAT, che quasi
mai recensiscono le mie produzioni, perché io faccio incontri tra grandi
americani e grandi italiani e per loro le sezioni ritmiche ed i solisti
italiani notoriamente sono inferiori agli americani. E chi lo dice questo?
Noi
abbiamo solisti migliori dei loro, il nostro studio si è trasformato piano
piano. Noi
non facciamo Jazz in assimilazione del fraseggio altrui, ma suoniamo nel nostro
linguaggio. La
storia del Jazz è posseduta dagli italiani ed è veramente amato il Jazz dagli
italiani. Ecco
perché suonano così bene ed io non scambierei i nostri nomi come D’Andrea,
Bollani, Pieranunzi e Lanzoni, questo sedicenne geniale di Firenze, ma io non
li scambio con i loro Jason Moran. Ma
lo hai sentito il disco di Jason Moran?
E
loro pompano i loro cavalli ed i nostri non li recensiscono, lo fanno solo
quando Bollani, raggiunta la ECM ,
viene imposto per le recensioni.
Adesso
viene recensito Bollani e solo adesso danno a Bollani ed a Rava l’onore del
Blindfold test sul numero di Downbeat di febbraio.
Questa
è una vergogna.
JfI:
gli americani sono sempre stati nazionalisti e convinti di essere il miglior
popolo del mondo, poi non gli toccare il loro Jazz, come se la musica avesse un
recinto intorno…
PP:
Sono sciovinisti gli americani, che non hanno recensito i miei 7 dischi di Phil
Woods in Italy 2000 che sono superlativi, li ho mandati in due copie ma nessuna
recensione è uscita su Downbeat.
Vergogna.
C’erano
musicisti come Bollani, Bosso, D’Andrea, De Paula, un disco più bello
dell’altro.
Li
ho fatti dopo che la prestigiosa Blue Note aveva scritturato Woods per otto
dischi in otto anni. Il primo disco è stato un disco di BeBop con Johnny
Griffin e Tommy Flanagan al piano e dal momento che non ha venduto tanto questo
disco qui, è stato chiamato dalla grande etichetta e gli hanno praticamente
reciso il contratto.
Io
che pensavo di non poter fare più i dischi di Woods, mi ero messo l’anima in
pace, ma appena l’ho saputo ho chiamato il mio eroe, un altro sottovalutato
considerato come un emulo di Parker, niente di più ridicolo. Andatevi a sentire
il periodo della European Rhythm Machine, quello non era un emulo di nessuno,
quello era un musicista meraviglioso, super, che è rimasto tale. Ora
non suona più 4000 note, ne fa 40 ma basta sentir il disco di Tony Bennett “the
Art of Romance” dove nel brano di apertura c’è un solo di Phil, che
praticamente io non lo posso sentire spesso perché è troppo bello, senti questo
suono, a 76 anni uno ha questo suono, e suona questa quintessenza di note, una
musica non più di 4000 note ma di 40 e va bene lo stesso, perché è un gigante,
uno degli ultimi.
JfI:
Phil Woods e Lee Konitz sono due dei tuoi idoli, vero?
PP:
Si, ed ho realizzato questo sogno di riunirli insieme ad Umbria Jazz, questi
due giganti, ed è stata un’impresa che mi stava mandando sul lastrico con
condizioni pesanti imposte anche dagli organizzatori di Umbria Jazz, che non mi
hanno aiutato per niente.
Io
tutto quel poco che ho fatto in Italia con i miei dischi, lo ritengo un
miracolo. Perché l’ho fatto con l’aiuto di musicisti sensibili come Rava, come
Bollani, come D’Andrea, come Pieranunzi, come Sellani. Io
l’ho voluto riscoprire Sellani, del quale ho fatto 66 dischi, l’ho ritenuta una
missione, non gli faceva fare più dischi nessuno a questo Signore del Jazz.
Thomas
Conrad di JazzTime mi ha detto grazie, perché "non avevo capito subito
Sellani ed ora, grazie a te l’ho capito", mi ha detto, "è veramente
molto personale e mi dispiace di averlo scoperto in ritardo".
JfI:
Tra questi grandi nomi troviamo anche Gianni Basso.
PP:
Lui sta suonando meglio che mai ed ora, mi arrivano migliaia di email,
soprattutto dagli USA, che dicono “sono un fan di Gianni Basso”. Io lo chiamo
Gianni e glielo dico, ma lui si schernisce e ride.
Ma
anche qui dovremmo tirare le orecchie alla critica, in questo caso a quella
italiana. Per esempio su Jazzit, un giovane redattore ha recensito un disco di
Basso con Irio De Paula dedicato a Jobim...
JfI:
e...?
PP:
loro suonano prevalentemente classici e lui l’ha valutato con sufficienza,
dandogli appena due stelle, scrivendo che è sempre lo stesso repertorio e che
ci vorrebbero cose nuove.
Sarebbe
come rimproverare Chet Baker di suonare tutte le sere Just Friend o My Funny
Valentine o Lament.
Vallo
a chiedere a Chet, in vita, “senti… guarda, tu suoni sempre But not for me…”,
senza considerare il fatto invece, che lo suona sempre diverso, con una nuova
emozione, che non legge la musica scritta ma cerca una nuova intensità ogni
volta, che vive il concerto con una dinamicità ed un’invenzione unica. Ma
questa è la caratteristica del Jazz, a differenza di Mozart, Brahms, questa è
la specificità che appartiene al Jazz.
JfI:
L’invenzione è l’anima vitale di questa musica
PP:
C’è un disco di Konitz che devi assolutamente ascoltare.
Anni
fa D’Andrea fece su mio progetto un disco mirabile che si chiama in Three
Lines. Lui ha improvvisato tre volte su se stesso. Dato
un tema, poniamo ‘o sole mio, ha fatto la prima improvvisazione, poi se l’è
fatta mandare in sala e sopra questa ha improvvisato una seconda linea,
sparandosi un secondo assolo sopra, poi ha fatto mandare tutte e due ed ha
registrato, sempre nuovo, una terza linea improvvisativa.
Di
questo capolavoro io avrò venduto cento copie, forse fra cento anni qualcuno
capirà. Perché
se c’è qualcosa di nuovo che viene fatto da un musicista del quale si pensa di
aver scoperto tutto, allora non si pensa di approfondire.
E
non dovrebbe essere questo il ruolo della critica?
Allora,
Konitz ha sentito questo disco ed è rimasto a bocca aperta ed ha voluto
registrare la stessa idea, facendo la sua musica.
L’unica
cosa che mi chiese fu: ma D’Andrea per fare questo capolavoro, dimmi, ha usato
il metronomo? Assolutamente
no, gli ho risposto, niente trucchi con Philology, tutto vero, così com’è. Io
non chiedo mai di rifare un pezzo, anche se il musicista avverte che c’è un
piccolo errore, perchè tutte le energie messe in quel solo emozionante, se lo
rifai una seconda volta, io non ci troverò più quello che ho sentito prima.
Allora
l’ho portato in studio, Konitz, per fare un disco in solitario su three lines,
e lui che fa, prende Subconscious Lee, si fa un pedalone di prima linea, poi
sopra incide una seconda improvvisazione, si spara tutte e due in studio e ne
registra una terza linea, poi si gira verso di me e con la mano mi fa un cenno,
mi fa quattro, voleva superare Franco, questa è la capacità, questa è
l’invenzione, questo è il segreto del Jazz.
Era
una sezione di sax inventata li per li, suonata in quel momento in diretta [40]
JfI:
Di Konitz avrai registrato più di trentacinque titoli...
PP:
Una settimana fa l’ho registrato a Milano, dove Konitz stava con Martial Solal
per la rassegna MITO e gli ho fatto fare altri tre dischi, con il progetto
Konitz plays Konitz. Il terzo è con Zambrini, uno con Paolo Birro ed il primo
con un pianista di Firenze, Piero Frassi bravo quanto Bollani ma che non sgomita
tanto per arrivare.
Me
l’ha fatto conoscere Michela Lombardi, una meravigliosa cantante, colta e
passionale che riesce a scrivere anche grandi testi, un’altra che canta come
nessuna ma nessuno sembra accorgersene. Anche
di lei ho prodotto io il suo disco di debutto [41], ed un altro con il vol. 17
della Revelation Series [42] poi l’ho affiancata al trio del pianista Riccardo
Arrighini e l’ho fatta incidere Starry Eyed Again dedicato a Chet Baker [43] ed
il tributo al repertorio di Baker continua con altri due dischi di prossima
uscita registrati con il trio di Renato Sellani [44] sempre per la mia label.
Michela
Lombardi è una che canta come nessuna e spero che anche questa intervista possa
offrire un’altra revelation.
JfI:
Nella Revelation Series ci sono importanti musicisti, ma c’è soprattutto il
futuro del Jazz.
PP:
Questa serie la sto dedicando anche a sconosciuti, come un americano quasi
settantenne chitarrista della Virginia che si chiama Lew Woodall che suona con
altri “vecchietti” in un disco che si chiama “Simply Cooking”.
Per
questo ho modificato il nome della mia serie in Revelation USA Series, così
capiscono che anche gli americani bravi li voglio scoprire io, perché quanti
soldi ti può portare scoprire un settantenne? nel business si ragiona così ed
io invece mi innamoro dell’energia, della forza e “cucino” un disco in
quartetto meraviglioso.
Per
questa stessa serie ho registrato un musicista di Bossa Nova che ho scoperto
adesso e che si chiama Rogerio Tavares per il quale ho prodotto un disco con
cose minori della Bossa, che si chiama Round, e che mi ha commosso. Ebbene,
questo musicista sta in Italia da quindici anni e mi spiace di averlo scoperto
solo adesso, ma non è mai troppo tardi, perché una voce così non credevo esistesse.
Rogerio
ha la voce più bella, incrinata dalla vita, dalle passioni, dalle debolezze,
dal dolore e dalle gioie, la più vicina a quella di Joao Gilberto che io abbia
mai ascoltato. Dopo il concerto di Sant’Elpidio ho scritto un articolo su
Rogerio Tavares, l’ho scritto di getto perché se c’è un errore, faccio come un
vero jazzista, lo lascio lì.
JfI:
Tu hai fatto anche una bellissima improvvisazione scritta per un disco di Chet
Baker, che tu stesso hai prodotto, Live from the Moonlight.
PP:
Quello è il Cult Disc in un club di Chet Baker, il più bel disco live mai
fatto, beh quel pezzo li io l’ho scritto di getto, sentendo un paio di soli di
Baker, io ascoltavo lui e lui ispirava me, ed infatti è concepito come una
lettera a Chet. Mi hanno detto che quelle sono le più belle liner notes mai
scritte per Chet Baker. Io
l’ho scritto come un solo e se è un vero solo di Chet, mica torni indietro, in
un solo o scrivi bene subito oppure è fatta e devi andare avanti. Se
si capisce questo concetto, si capisce il personaggio Paolo Piangiarelli.
Io
sono così, non mi devo far vedere da nessuno, non mi devo far grande, non
bastano i quattrocento dischi che ho fatto? Ne
ho fatti più della Columbia, li ho fatti con il sangue, con il sudore, con
tanti sacrifici, anche i dischi minori, se solo la critica li avesse ascoltati.
JfI:
È un’avventura difficile quella di un produttore di musica in Italia.
PP:
Questa avventura mi è costata tanto, io vengo da una depressione brutta che ho
passato due anni fa, dal quale mi sono tirato fuori da solo grazie alla
scoperta di Alessandro Lanzoni, un ragazzino di 14 anni che ho sentito al
premio Urbani.
Beh,
io lì a mia moglie vicina, gli ho detto : “aspetta Giovanna, aspetta, aspetta…,
questo è un altro segno che il divino mi manda, è come se mi stesse dicendo:
non ti è bastato quello che hai vissuto, che ti ho fatto scoprire, ancora ti
permetti di essere depresso, perché? Da domani, quando torniamo a casa,
buttiamo via tutte le pillole che stò prendendo ed io in questo momento decido
di essere guarito dalla depressione”
JfI:
Questo dimostra la tua fede e la tua grande forza, perciò guardiamo avanti...
PP:
Si, adesso ho prodotto il disco di debutto in piano solo di Mauro Grossi, che è
il pianista sommo a cui dobbiamo Bollani, perché Mauro è il Maestro di Bollani
e se uno ascolta attentamente Grossi, capisce da chi deriva Bollani. A quasi
cinquantanni fa il suo primo disco in piano solo [45], ma mi sono fatto
promettere che ne farà un altro dedicato a Tristano, che lui adora.
Come
anche il debutto di Andrea Pozza, a 39 anni in trio, l’ho fatto io.
JfI:
Un disco molto bello, con le liner notes a firma di Rava che le intitola
“Attenzione, PERICOLO, disco di Jazz”
PP:
Molto bello, io al Jazz devo tutto, devo anche il fatto di essere libero
innanzitutto. Per questo non sono editore perché cerco solo la buona musica,
non lucro con i miei dischi.
È
per questo che oggi tutti i dischi sono pieni di edizioni e si evita la Poesia degli standard, l’approccio
personale. Konitz lo dimostra, con i suoni naturali che registra in presa diretta, è buona
la prima.
Se
sai suonare fai i dischi con PHILOLOGY, sennò vai altrove e ci metti 5 gg per
fare un disco, poi 5gg per pulirlo e dopo il mixaggio il disco lo puoi buttare
nella spazzatura perché non è più quello che hai concepito, è una cosa
ripulita, non mi interessa, prego, io voglio il fischio dell’ancia di Charlie
Parker e quando Konitz si rammarica che si sente troppa saliva, io gli dico
Lee, che te ne frega, sputaci in quel saxofono, ‘chè è naturale, come il colpo
del pedale sul pianoforte, se c’è, c’è, perché devi attutirlo?
JfI:
Questo ci riporta alle tue produzioni di inediti, da salvare dall’oblio, da
recuperare a qualsiasi condizione, come i nastri di Lester Young, quelli della
cabina telefonica di Parker, o di Clifford Brown. All’epoca
questo ha creato qualche discussione, in pochi hanno capito il valore di quelle
registrazioni e la tua passione per la ricerca filologica.
PP:
Mi ricordo che Piras dedicò uno studio a queste uscite di Brown e, mi ricordo
che sull’Unità uscì un articolo intitolato “Hello, Charlie Parker - il disco
del secolo”, perché il primo solo ritrovato di Parker è come aver ritrovato la Nike di Samotracia sepolta
sotto la sabbia.
L’unico
limite di quelle discussioni era che tutto veniva ridotto all’aspetto
commerciale di quella pubblicazione, ma ricordati che sul retro di copertina
c’era scritto “It’s not Hi Fi Bird, but it’s Hi Bird”, cioè un avvertimento che
non era un disco di alta fedeltà, ma è un disco del grande Parker, è il primo
soffio vitale del jazz moderno, da solo.
È
li che ho avuto l’idea di far fare cose in piano solo, i duetti che ho iniziato
a produrre. Sono
stato il primo che ha prodotto duetti tra due pianoforti, in anni non sospetti,
con il duo di Mike Melillo e Franco D’Andrea [46]. O
con quello LIVE tra Stefano Bollani & Franco D’Andrea [47], ed ancora in
due dischi tra D’Andrea e Sellani [48], due stilisti completamenti diversi, due
dischi sconosciuti perché sono invenduti.
JfI:
Ma torniamo al futuro, Paolo, mi hai detto che Lanzoni è stata “la tua
salvezza”
PP:
Si, non avevo ragione di essere depresso e praticamente Alessandro Lanzoni me
lo ha fatto capire. L’ho fatto incontrare con Lee Konitz in un disco uscito da
poco dedicato a Bill Evans, che ho voluto chiamare “Poetical
Lee / 81 + 15 = 96”
[49]
Lanzoni
è stato probabilmente l’ultimo grande atto della mia vita musicale, perché dopo
Lanzoni non credo che ci siano altre sorprese [50].
Gli
americani, come al solito, se ne accorgeranno tardi perché vogliono scoprirlo
tardi, perché gli fa comodo, loro vogliono scoprire solo i loro polli di
allevamento, i nostri geni non li scoprono con piacere. Loro non recensiscono i
dischi se non gli paghi le pubblicità, infatti danno cinque stelle ad un disco
di Sonny Fortune che secondo me dovrebbe vendere il pane. Il
trio di Lanzoni [51], con Ares Tavolazzi e Walter Paoli è il più bel trio in
attività in Italia, ed Alessandro è un miracolo.
JfI:
Prima c’era stato Francesco Cafiso, un'altra tua giovanissima scoperta
PP:
La sua scoperta è stata importante, ma quante cattiverie gli hanno fatto. Ora
praticamente non ha più lo stesso manager, che è il padre di Giovanni Guidi ed
è anche il suo manager, oltre che quello di Rava e Bollani.
Questi
tre lo impegnano troppo, per cui mi risulta che abbia abbandonato Francesco. Ma
lui deve smettere di ascoltare tutto quello che gli dicono. Devi suonare come
Garbarek gli dicevano, ma secondo me non lo volevano far crescere. Lo devo
andare a sentire a Foligno e spero di sentirlo bene perché se vacilla glielo
dico, “a Francè non ti riconosco più”, se veramente suona peggio eh, perché lui
suonava da dio a undici anni, perché con la tecnica che ha lui può suonare alla
Ayler, alla Coleman, come vuole, ma deve suonare come se stesso, solo come se
stesso.
JfI:
Nella tua attività di scoprire talenti quale è stato l’apporto della critica?
PP:
Non ho mai amato la critica, ed a pochissimi ho riconosciuto il talento del
critico, la critica italiana probabilmente non meritava niente, secondo me. Ci
sono i critici dell’area bolognese che basta che possano parlare di rumori e
tutto quello che si avvicina alla musica è dato per scontato, una cosa
piacevole, si, ma niente di più, mentre in tutto quello che è rumore ci trovano
dei significati così profondi.
JfI:
Per esempio nel ’90, quando hai inciso “Bella” di Enrico Rava con Pieranunzi
[52] erano anni che nessuno si ricordava più di lui, l’ultimo disco promosso
dalla stampa era il Soul Note del ’86, in mezzo aveva inciso due cose con la Gala che neanche circolavano
e con la Label Bleu
registrerà solo nel ’93.
PP:
Si, quell’incontro io l’ho organizzato prima, molto prima della EGEA, ed io
appena ho costituito la
PHILOLOGY ho pensato che Rava era così significativo per il
Jazz italiano che mi sarebbe piaciuto dargli la giusta attenzione. Così
è stato per Massimo Urbani, che ho registrato subito con la mia label, un disco
bellissimo, un capolavoro misconosciuto, e quando parlano di Massimo ricordano
i dischi della Red, mica questo intimo capolavoro, per cui che critica è,
scusa, che critica è?
A
parte l’ostracismo che si può fare al produttore, tu come critico devi andare al
di là, devi andare a scoprire i capolavori, ti devi documentare, anche se il
produttore non ha fatto in tempo a fartelo avere, il disco.
Io
posso anche aver sbagliato nelle mie promozioni, ma a volte inviare dischi a
personaggi come questi, è come dare perle ai porci.
Perché
tu devi fare il tuo lavoro senza questi calcoli, "me l’ha inviato o lo
devo comprare", perché dietro a questo ci deve essere una passione. Io mi
farei schifo da solo come produttore se avessi prodotto pensando “di questo
disco non vendo una copia”, io li ho fatti tutti pensando “viene fuori un disco
bello, allora lo faccio.”
JfI:
Sicuramente, però la tua sincerità e bontà d’animo ti ha ripagato nel rapporto
con i musicisti
PP:
Si, i rapporti sono bellissimi, Lee mi adora, come mette il piede sul suolo
italico mi cerca e così era con Chet e con Massimo, che era meraviglioso.
Di
lui dopo il concerto di Bologna non ho fatto più niente, ma ci sono altre cose
di Massimo da pubblicare molto belle e prometto che per il prossimo Premio Urbani
faccio un paio di uscite di Massimo di quelle al fulmicotone.
JfI:
Tu hai registrato tutto il loro ultimo periodo ed i dischi di Chet Baker fatti
con te sono, a mio parere, tra i migliori.
PP:
Quei dischi di Chet Baker sono bellissimi ed io quei dischi in duo ed in
quartetto con Pieranunzi, gli ultimi purtroppo della sua vita, non li ho più in
catalogo, perché li ho donati a Carol Baker, la vedova di Chet, memore delle
parole di Chet che mi disse, se dovessi scomparire pensa a mia moglie Carol. Ma
lei non ne ha fatto niente, perché gli americani non capiscono il periodo
ultimo di Baker, quel periodo senza denti, con quel suono angelico, soffiato,
non lo capiscono. Loro preferiscono quando Baker faceva il bebop annacquato
bianco, che suonava negli anni 50/60.
Dopo,
quando ha vissuto in Europa, negli anni ’70, gli americani non l’hanno mai
premiato, invece era il periodo sublime, secondo me, dove potevi sentire tutte
le sere una versione diversa di Just Friends e tutte le volte restavi incantato
come se non l’avessi sentita mai, è diventato grande anche come cantante.
Purtroppo, io ho anche cercato di ricomprare a Carol quei dischi, ma non mi ha
mai risposto.
E'
un peccato...
C’è
“Little Girl Blue” che è di una bellezza travolgente, con in copertina la foto
di mia figlia, una bambina indiana che devo al Jazz, che mi ha insegnato tutto,
ed a Chet che mi diceva “vedi Paolo, io non ho casa, la mia casa sono gli
alberghi del mondo per cui devo sempre suonare per vivere, la mia casa è la
custodia della mia tromba”. Questo mi ha colpito molto, Chet non aveva niente,
a parte la tromba, ed allo stesso tempo donava tutto e quando ha fatto quei due
dischi con Pieranunzi, io mi sono sentito dire “io non ce la faccio più a
suonare la tromba, mi apro uno studio di registrazione a Parigi e canto
solamente”.
Questo
era il suo sogno, soffriva tanto a suonare la tromba a quei tempi. Quando venne
a Macerata, io gli organizzai un tour sinfonico di otto date, era il 1985 ed io
non ero ancora partito come PHILOLOGY, la registrazione di quei concerti Chet
la donò a Melillo, dicendo che lui stava guadagnando molti soldi e che a Mike
potevano fare comodo, e Melillo la cedette alla Soul Note, per cui quello è il
primo disco “moralmente” PHILOLOGY [53], anche se è uscito per Bonandrini.
Chet
era come un bambino, era un puro, ed ha sublimato la sua triste vita con la
bellezza della sua musica. Se
mi dovessi portare un musicista solo su un’isola sperduta, porterei Chet Baker.
[1] Phil
Woods Quartet “THE MACERATA CONCERT” vol. 1, 2, 3 – PHILOLOGY W 1/2/3
[2] Phil
Woods & European Rhythm Machine “The Birth of ERM” – 2 LP PHILOLOGY W 16/17
[3] Phil
Woods / Bob Dorough / Bill Takas "MEMORIAL CHARLIE PARKER" -
PHILOLOGY W 24
[4] Phil
Woods meets Big Bang Orchestra “Embraceable You” - PHILOLOGY W 25
[5] Charlie
Parker “Bird’s Eyes vol. 1”
- PHILOLOGY W 5 (see PHILOLOGY catalogue for others volumes)
[6] Lester
Young “Prez’s Hat vol. 1”
- PHILOLOGY W 6 (see PHILOLOGY catalogue for others volumes)
[7] Brown
& Baker “ Black and White series vol.1 – The two Trumpet Geniuses of the
fifties” – PHILOLOGY W 13
[8] Marcello Piras “ La suspense degli inediti” Musica Jazz
n°8/9, Agosto/Settembre 1990
[9] Chet
Baker Trio “Live from the Moonlight” – 2 LP PHILOLOGY W 10/11
[10] Chet
Baker – Enrico Pieranunzi “The Heart of the Ballad” - PHILOLOGY W 20
[11] Chet
Baker meets Space Jazz Trio “Little Girl Blue” - PHILOLOGY W 21
[12] Chet
Baker “Seven Faces of Valentine” - PHILOLOGY W 30
[13] Chet
Baker “Naima: Unusual Chet” PHILOLOGY W 52
[14] Chet
Baker Trio “A Trumpet for the Sky vol.1
& 2” –
PHILOLOGY W55/W56
[15] Chet
Baker “A Night at the Shalimar” – PHILOLOGY W 59
[16] Tiziana Ghiglioni – Mike Melillo “Goodbye, Chet” –
PHILOLOGY W22
[17] Chet
Baker Quartet plus… “The Newport
Years vol. 1”
– PHILOLOGY W 51
[17/b] Chet
Baker In Europe , 1955 – PHILOLOGY w 42-2
[18] Lee
Konitz meets Space Jazz Trio “BLEW” – PHILOLOGY W 26; Lee Konitz meets Space
Jazz Trio “PHIL’S MOOD” – PHILOLOGY W 27
[19] Lee Konitz & Enrico Pieranunzi “Solitudes” –
PHILOLOGY W 28
[20] Lee
Konitz “Self Portrait” – PHILOLOGY W 121
[21] Lee Konitz & il complesso di Giovanni Tommaso
“STEREOKONITZ” – RCA IT, Ottobre 1968
[22] Konitz
/ Rava quartet “L’Age Mur” – PHILOLOGY W 123
[23] Enrico Rava “Bella” – PHILOLOGY W 64
[24] Enrico Rava “Rava plays Rava” – PHILOLOGY W 155
[25] Stefano Bollani / Ares Tavolazzi “Mambo Italiano,
dedicato a Dean Martin” – PHILOLOGY W 141
[26] Massimo Urbani “Invitation” CD allegato a Musica Jazz,
ottobre 1995 – PHILOLOGY W 58
[27] Mike Melillo / Massimo Urbani “Duet improvisation for
Yardbird” – PHILOLOGY W 4
[28] Intervista a Paolo Piangiarelli di Carola De Scipio, in
“L’avanguardia è nei sentimenti” – Stampa Alternativa 1999
[29] 24
novembre 1984 - PHILOLOGY W 70
[30] Live at
Palazzina Liberty, Milano, 20 marzo 1979 – PHILOLOGY W145
[31] Civitanova Marche, 26 settembre 1983 – PHILOLOGY W 181
[32] Rimini, 7 agosto 1981 – PHILOLOGY W 187
[33] Ancona, 27 novembre 1984 – PHILOLOGY W 221
[34] 6
agosto 1987, PHILOLOGY W 228
[35] Live at
Belzebù, 16 dicembre 1988 – PHILOLOGY W 238
[36] Isernia, 9 agosto 1992 – PHILOLOGY W 313
[37] Civitanova Marche, 11 aprile 1983 – PHILOLOGY W 734
[38] Bologna , 23 febbraio 1990
– PHILOLOGY W 338
[39] Herbie
Hancock“River: The Joni Letters”
[Verve]
[40] Lee
Konitz “Self Portrait” – PHILOLOGY W 121
[41] Michela
Lombardi “Small Day Tomorrow” debut of a great singer (dedicated to IRENE KRAL)
– PHILOLOGY W 709
[42] Michela Lombardi “Swingaholic”
[43] PHILOLOGY W 346
[44]
Moonlight Becomes You – Thinking Of Chet VOL.1;
Still In My Heart – Thinking Of Chet
VOL.2.
[45] Mauro
Grossi “Colori” – PHILOLOGY 2008
[46]
“Timeless Monk” – PHILOLOGY W 172
[47] “The
Macerata Concert” – PHILOLOGY W 167
[48] Franco D’Andrea & Renato Sellani “ L’avventura
dell’incontro” – PHILOLOGY W 205
Franco D’Andrea
& Renato Sellani “ L’avventura continua” – PHILOLOGY W 214
[49]
PHILOLOGY W 381
[50]
Alessandro Lanzoni “I Should Care” winner of I.M.U.A. 2006 – PHILOLOGY W 355
[51]
Alessandro Lanzoni Trio “On the Snow” – PHILOLOGY W 285 - Revelation Series
vol. 1
[52] Enrico Rava “Bella” – PHILOLOGY W 64
[53] Mike
Melillo – Chet Baker – Orchestra Filarmonica Marchigiana “Symphonically” – Soul
Note
Che bello poter rileggere a distanza di anni le parole di un pazzo visionario che oltre ad onorarmi della sua amicizia mi ha permesso di conoscere personaggi unici come Phil, Lee, Stefano, Fabrizio, Renato, Enrico, Gianni, Irio, Stefano, i due Massimi del ritmo e i giovani talenti Francesco ed Alessandro
RispondiEliminaChe nostalgia dei giorni interminabili al Mu_rec di Falascone dove dopo ore di "buona la prima" prendevano vita tante piccole gemme di vero jazz fatte con tanta passione e amore
Grazie di tutto Paolo
Marco
ho appena acquistato Live at la Mela di Massimo Urbani e non riesco nemmeno a commentare la grandezza infinita di Max...
RispondiEliminaMa per il Live at Bern 1977 con Lester Bowie non c'e' nessuna speranza? Ciao e Grazie..
Oggi se ne è andato un altro grande amico mio e di Paolo
RispondiEliminaCiao Irio da qualche parte potrai risuonare con Phil quel capolavoro che è stato encontro on Jobim pura poesia
Grazie per questi cinquant'anni di musica jazz americana e italiana . Le parole non servono perchè fortunatamente c'è la musica!
RispondiEliminama il blog e' stato abbandonato? Spero tanto di no....
RispondiEliminaqualcuno sa che fine ha fatto questo blog ? E anche si vos non vobis del grande Mel ?...
RispondiEliminapuoi dare qualche segnale.......
RispondiEliminaGrande Piangiarelli
RispondiEliminaAnima del jazz poetico
Un autentico grazie
Ciao grazie per questo e gli altri tuoi blog, sarei felice potessi fare un re-up di qualche album di Massimo Urbani, mi sarebbe utile per lo studio del sax e per bel godimento fine a se stesso.grazie
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