«Ma allora 'sto Kamasi»? è la sintesi dei
tanti messaggi privati che ho ricevuto in queste ore.
Certo
è che chi mette in piedi un disco denso, variegato e composito come questo triplo
lavoro merita anzitutto il mio rispetto, tanto quanto chi finiva per primo
l'album delle figurine Panini tra gli amichetti del quartiere.
photo by Mike Park
Al
primo ascolto ho avuto alcune certezze ed altrettanti dubbi:
P un groove trascinante, un'architettura maestosa, un
suono moderno con il quanto basta di nostalgia, lontani lampi free di rabbia,
echi black, brown and beige e la
toccante scelta di due classici (Cherokee di Ray Noble e Clair De Lune di
Claude Debussy), sono stati i preliminari del godimento;
P una triplice e pomposa mancanza di modestia (al
limite del "chi ce l'ha più grosso"), un retrogusto freddo e celebrale
ed un pizzico di sfacciata paraculaggine
hanno invece lasciato in me un certo senso d'insoddisfazione, più vicino al
coitus interruptus che ad un vero e grosso amore.
The Plan, The Glorius
Tale e The Historic Repetition
sono i capitoli di questa saga, ispirata da un sogno ricorrente con
protagonista "Il Guardiano" che deve proteggere il suo territorio da
coloro che cercano di sconfiggerlo e che ha preso musicalmente forma nella traccia
di apertura del lavoro (Change of the Guard, appunto), i cui temi sono ripresi
in tutto il triplo album. The Guard diventerà presto una graphic novel e nel
box in versione vinile si possono ammirare due disegni di KC Woolf Haxton al
riguardo.
«The
Epic è nato grazie alla storia," dice Kamasi Washington a Phil Johnson del
Independent "che ho pensato come Omerica. Io non volevo che fosse solo una
raccolta di canzoni a caso, ho voluto che avessero uno scopo, e che proprio per
questo avrebbero potuto essere ascoltate fino in fondo, perché in un buon
racconto una cosa tira l'altra. Non ho mai pensato alle dimensioni dell'album
prima della fine della storia ».
Fatto
sta che, nonostante i miei sani dubbi, dopo l'acquisto dei tre CD da Blutopia, ho comunque votato "The Epic"
tra i piazzati del Top Jazz '15 (tanto oramai i voti sono chiusi e ve lo posso
dire) ed aspettavo con trepidazione questo incontro dal vivo a conferma dei
miei sentimenti che, faccia a faccia, non avrebbero avuto più filtri. E, finalmente,
il 10 novembre è arrivato.
Premettendo
che tutta la musica andrebbe ascoltata preferibilmente dal vivo per il totale
coinvolgimento sensoriale, il clima sudaticcio
dell'evento e la partecipazione collettiva, devo specificare che la band che si
è presentata al MONK di Roma (ex la
Palma ) era in versione diversa e ridotta rispetto alla registrazione.
Su tutti (che in alcune tracks su disco si contano anche più di 30 nomi tra
archi e voci del coro) spiccavano per l'assenza Thundercat al basso elettrico,
Cameron Graves al piano, Igmar Thomas alla tromba e Leon Mobley alle
percussioni.
Ma lo zoccolo duro c'era eccome, con Brandon Coleman - aka
Professor Boogie - alla tastiera ed al Moog, Ryan Porter al trombone, Miles
Mosley al basso, Tony Austin e Ronald Bruner a raddoppiare la batteria e la
voce di Patrice Quinn; tutti a supportare ed abbracciare il tenore di Kamasi Washington.
Guest del tour Rickey Washington, il padre di Kamasi, al soprano ed al flauto,
che qualche ora prima mi aveva venduto il triplo vinile in cofanetto (thx
Washington Sr.!).
La
lunga introduzione del gruppo attraverso il tema che ha dato forma a tutto il
racconto epico, quel Change of the Guard
più volte ripreso e reiterato a sprazzi lungo tutta la durata del concerto, ha
da subito confermato che "The Epic" facesse perno sul continuo fine tuning tra le contrastanti sensazioni:
dal vivo le singole voci erano un po' più sbilenche e naturali (e per questo
più belle!), ma l'architettura portante del lavoro in studio, a tratti veniva
meno. L'insieme è stato comunque esaltante, specialmente sui collettivi più
infuocati e veloci e, nonostante non avessi digerito ancora l'ascolto in tripla
portata, dal vivo la musica è risuonata sorprendentemente nuova in alcuni
pezzi, come "Leroy and Lanisha" che si è colorato di tinte più
afrobeat al MONK, lasciando diluire i toni più freefunky della registrazione o
il vigoroso hardbopper di "Re Run" che sul disco viene un po' inutilmente
addolcito dai cori sullo sfondo.
photo by Lauren Lancaster
I due "standard" avevano già
lasciato il segno su di me, nonostante il primo incontro anonimo a metà del GRA
in un lunedì in cui mi recavo al lavoro, e l'ascolto sulla pelle non poteva che
aggiungere una affascinante sfumatura al range delle emozioni (sono un
sentimentale, lo so...). Cherokee è
una delle canzoni d'amore più bella della storia americana, usata da Bird per
la sua Ko-Ko ed incisa spesso da Chet Baker, mentre il pezzo di Debussy, reso
unico da un ballabile assolo di Miles Mosley al contrabbasso, mi ha ricordato
che la differenza tra un valzer ed una ballad, o tra un bianco ed un nero, è
solo un confine mentale. La felice scelta di chiusura è stata affidata a
"The Rhythm Changes" il pezzo forte per la voce della Quinn che sul
disco avevo "classificato" come newdancingospelsoul
e che i tipi hanno volutamente rallentato dal vivo, donando un'accezione
ritmica al beat degna dei più sensuali e sincopati passi della Harlem
Renaissance.
photo by Kevin Hill
Quasi
due ore e mezza di eccitazione e turbamento senza interruzioni, con il leader
che faceva spesso un passo indietro, lasciando il palco alla sua compagine, per
contenere i suoi interventi nella misura ma non nella partecipazione.
photo by Annie Tritt
Ma
insomma, 'sto Kamasi? ripeto a me stesso...
P Se
i tre dischi mi erano sembrati un po' pretenziosi, in realtà avrei voluto che
il concerto non finisse mai, e questo mi ha lasciato il pensiero di come io vivo,
gestisco e subisco il mio tempo;
P Se
la compilazione a tavolino di un patchwork così importante, ampio e doloroso
come la storia che ha segnato tutti gli uomini del '900 (nel disco c'è anche
la toccante "Malcolm's Theme" con le parole di Ossie Davis tratte
dall'elogio funebre a Malcolm X) mi era sembrata un po' pretenziosa, al limite
del paraculo, la performance dal vivo mi ha messo di fronte alla sincerità di
quei ragazzi (lo sguardo di Washington Sr. basterebbe da solo) ed anche alla
mia coscienza, perché in fondo come cazzo posso io valutare sinceramente la
veridicità della Black American Music?
P Se
l'architettura precisina e senza sbavature della registrazione mi aveva
lasciato quello sgradevole gusto ferroso nel retrocranio, la umanità dei suoni e
la variabilità delle forme, non delle intenzioni, mi hanno convinto
definitivamente e fatto interrogare sul braccio forte, diretto o indiretto, del
mercato americano dell'Entertainment tutto, che predilige il prodotto limato e
ben rifinito all'intensità più sporca delle vere emozioni.
photo by Mike Park
Insomma,
io sono ancora convinto del 1° posto che ho assegnato al Top Jazz, ma se avessi
avuto questo incontro prima, probabilmente la scaletta dei miei piazzati
sarebbe stata più corretta: i ragazzi di “The Epic” cucinano con un giusto mix di raffinata
tecnica (narrativa e produttiva più che strumentale), ricetta storica e nuovo
piccante, sanno quello che vogliono dire ed anche come lo vogliono fare e, se
davvero hanno voluto mostrare di avercelo più grosso, è solo questione di
natura. Questo non dovrebbe né aggiungere merito di santa filiazione, né far
opporre una gratuita invidia al loro lavoro, che deve essere solo ascoltato con
orecchie pure e ben aperte, ma comunque ascoltato.
Photo by Leroy Hamilton
Anche perché, sinceramente, quanti album di figurine tosti come questo siete riusciti a completare voi nella vostra fanciullesca carriera?
Recensione bella e sentita.
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