giovedì 26 novembre 2015

This Machine Kills Fascists - Francesco Bearzatti Tinissima Quartet _ 2015

 

Ieri, alla Casa del Jazz, ero sicuro che avrei visto la mia gente.
Tutti quelli indignati, consapevoli, incazzati e forse anche un po' impauriti per il declino degli equilibri mondiali che continuano ad essere scossi dall'interno per una politica comune inesistente, per degli interessi economici che fagocitano il valore umano, per dei recinti mentali che nessuno osa più nemmeno afferrare, figuriamoci scavalcare...


E invece ieri a Roma, all'apertura del tour del Tinissima Quartet per "This Machine Kills Fascists", eravamo appena un'ottantina di persone, per fortuna con tanti amici del "giro sensibile" del jazz. Ma io pensavo che ci sarebbe stato tutto il mondo, che avremmo fatto la fila per condividere questo dichiarato gesto/pretesto per partecipare, che avremmo scelto di scendere a nostro modo ancora una volta in piazza e invece, a fine serata, mi domandavo se questo paese fosse davvero fatto per me, e per te...


E si perché l'ultimo lavoro di Francesco Bearzatti è, nelle intenzioni, il più coraggioso e connesso al momento storico che ci si poteva aspettare, una dichiarazione d'intenti che avrebbe dovuto creare scalpore in un panorama culturale abbastanza piatto, che sembra non essere più capace di mescolarsi con la vita reale, che non riesce più a vedere oltre i limiti imposti, che ha perso la necessaria connessione con il tessuto sociale e che ha dimenticato anche di saper ricordare.


Quando abbiamo deciso di fermarci alla prima strofa? quando abbiamo smesso di cercare le possibili risposte nascoste sotto la superficie? è stato quando abbiamo iniziato a scattare selfie alla nostra coscienza o quando abbiamo preferito non sporcarci più le mani, sapendo di ingoiare un piatto insapore e velenoso, più che indigesto? E non buttiamola sulla mancanza di tempo, che a volte la velocità è l’unico antidoto per la pigrizia mentale.

By the relief office, I’d seen my people/
As they stood there hungry, I stood there asking/
Is this land made for you and me?

As I went walking, I saw a sign there/
And on the sign there, It said, “No trepassing”/
But on the other side, It didn’t say nothing/
That side was made for you and me


Musicalmente poi, il tributo a Woody Guthrie è il più intenso e connesso al germinale "Suite for Tina Modotti", senza nulla togliere a "X (Suite for Malcolm)" e "Monk'n'Roll", non solo per via del viaggio come elemento centrale e della dimensione più folk dei due protagonisti omaggiati, ma proprio per la texture strumentale, per l'assenza o quasi di inserti elettronici, per il forte legame tra i musicisti sul palco, che non sembrano suonare la suite pensando all'interplay o al call and response, ma che più “semplicemente” restano naturalmente agganciati uno all'altro nonostante il precario, traballante e fischiante equilibrio di tutte le relazioni, tenuti insieme più dal vento evocato dal tributo che dalla materia dei loro strumenti, là dove ottone, terra e legno, pelle, aria e corde si sporcano e si intrecciano tra gli sbuffi di carbone bruciato.


Superfluo parlare di questi ragazzi, formazione oramai ben nota e riconosciuta, con Danilo e Zeno che compongono una delle ritmiche più trasversalmente solide, creative e cariche di groove da far paura alla maggior parte dei trii rock o jazz che si vogliano far chiamare, con la voce eclettica di Giovanni che è un prolungamento viscerale che si fa strumento e che rumoreggia e spinge, soffia, stacca e cattura l'animo (e che a mio parere non è stato ancora correttamente posizionato nell'albero genealogico dei trombettisti, in generale). Poi Francesco, lui che è il più punkettone dei jazzisti nostrani, che ha presentato l'omaggio alle “Protest Songs” dicendo che fa del "Combat Jazz" (e qualcuno ha riso delicatamente, ma io mi sarei buttato giù dalla gradinata, avrei alzato il pugno o mi sarei tolto il cappello se solo l'avessi avuto...), è la chiave di volta di questa nuova struttura musicale che dovrebbe essere presa a riferimento nel panorama artistico contemporaneo.


Quando è partita la dolce "Okemah", città natale del leggendario folksinger, Bearzatti era praticamente piegato su se stesso, immagine che ha visualizzato in me la ricerca di un suo primario suono interiore (che non prescinde dai primi dischi di standard con Giovanni Mazzarino, anzi), poi ha iniziato a liberarsi, gettando sulle tavole del palco prima il portafoglio poi, con "Long Train Running", lo smartphone e quando è arrivata "Hobo Rag" ha gettato dal finestrino pure gli ultimi foglietti, scontrini e biglietti della Metro che lo trattenevano a terra, rimanendo solo con la sua "arma", pronto a partire per un altro viaggio emozionale, tutto suo, e pure nostro...


Il resto è stato un fiorire di sensazioni, tra una "N.Y." come finestra aperta sulle vie del Nuovo Mondo urbano (stranamente molto meno tossica e frenetica della “America!” di Tina Modotti), ed una "Witch Hunt" scattata come gelida istantanea per niente sbiadita della Guerra Fredda, invase dalla reprise rassicurante di Okemah per arrivare a "One for Sacco and Vanzetti", risposta poetica e sanguigna al Maccartismo ed all'unica cover dell'album, quella "This Land Is Your Land" composta da Guthrie sulla base del gospel "When the World's on Fire" che è diventata il vero inno dell'America più vera, lontana dalle retoriche di "God Bless America". La chiusura è spettata a "Mandi Friul", la traccia che apriva la suite per Tina Modotti e non so perché non ho pianto, eppure tutto tornava.


Eravamo appena un'ottantina di persone ieri a Roma, all'apertura del tour del Tinissima Quartet per "This Machine Kills Fascists". 
Mi dispiace per tutti quelli che non hanno potuto sentire di essere ancora vivi e peccato che c'erano quelle cazzo di sedie in mezzo perché sennò avrei violato il confine del palco con la ragazza che mi era seduta accanto, avrei ballato il rag con Federico, Pasquale, Dario, Giampietro o Enzo, mi sarei attaccato alla maniglia del primo treno sbuffante sogni ed avrei teso la mano a Francesco, Giovanni, Danilo e Zeno, dividendo con loro quelle quattro cose che ci saremmo trovati in tasca e scaldando il vagone bruciando almeno per l’ultima volta i nostri fibrosi cuori.


L’America, dunque” – scrive Alessandro Portelli, a proposito dei versi eliminati dallo stesso autore nella prima versione pubblicata di  "This Land Is Your Land" – “era stata fatta per quelli come me e come te, per la gente comune, per i disoccupati in fila per una minestra; ma qualcosa ci impedisce di goderla, e si chiama proprietà privata” (A. Portelli, Woody Guthrie e la cultura popolare americana, Sapere 2000 ed., Roma 1990, pag. 181).

lunedì 16 novembre 2015

«Jazz Inchiesta Italia», una meditazione politica

 [foto di Umberto Santucci]

Quando sabato 14 novembre è uscito l’articolo di Franco Bergoglio su Alias de “il Manifesto”, i fatti appena successi nel mondo (che Parigi, a me molto cara, non è tutto il mio mondo) erano così sanguinanti che mi era sembrato fuori luogo, o addirittura provinciale, parlare di Jazz Inchiesta Italia.

Oggi devo ammettere che il mio pensiero, come quello di molti altri, era forse offuscato dal dolore perché rileggendo l’articolo, che non a caso ha per sottotitolo «una meditazione politica», i parallelismi con l’attuale situazione globale, riflessi attraverso i confini mentali, l'eco mediatica che spinge nella direzione voluta e le responsabilità politiche, possono essere spunti di una più vasta riflessione, che prende il libro di Enrico Cogno solo come migliore pretesto.

«Se arte e società rispecchiassero in maniera meccanicista la politica, una nuova inchiesta sul jazz italiano esigerebbe stomaci robusti»



giovedì 12 novembre 2015

Kamasi Washington – The Epic _ Vero poema epico o paracula scenografia di cartone?


«Ma allora 'sto Kamasi»? è la sintesi dei tanti messaggi privati che ho ricevuto in queste ore.
  
Certo è che chi mette in piedi un disco denso, variegato e composito come questo triplo lavoro merita anzitutto il mio rispetto, tanto quanto chi finiva per primo l'album delle figurine Panini tra gli amichetti del quartiere.

photo by Mike Park

Al primo ascolto ho avuto alcune certezze ed altrettanti dubbi:
P un groove trascinante, un'architettura maestosa, un suono moderno con il quanto basta di nostalgia, lontani lampi free di rabbia, echi black, brown and beige e la toccante scelta di due classici (Cherokee di Ray Noble e Clair De Lune di Claude Debussy), sono stati i preliminari del godimento;
P una triplice e pomposa mancanza di modestia (al limite del "chi ce l'ha più grosso"), un retrogusto freddo e celebrale ed un pizzico di sfacciata paraculaggine hanno invece lasciato in me un certo senso d'insoddisfazione, più vicino al coitus interruptus che ad un vero e grosso amore.


The Plan, The Glorius Tale e The Historic Repetition sono i capitoli di questa saga, ispirata da un sogno ricorrente con protagonista "Il Guardiano" che deve proteggere il suo territorio da coloro che cercano di sconfiggerlo e che ha preso musicalmente forma nella traccia di apertura del lavoro (Change of the Guard, appunto), i cui temi sono ripresi in tutto il triplo album. The Guard diventerà presto una graphic novel e nel box in versione vinile si possono ammirare due disegni di KC Woolf Haxton al riguardo.


«The Epic è nato grazie alla storia," dice Kamasi Washington a Phil Johnson del Independent "che ho pensato come Omerica. Io non volevo che fosse solo una raccolta di canzoni a caso, ho voluto che avessero uno scopo, e che proprio per questo avrebbero potuto essere ascoltate fino in fondo, perché in un buon racconto una cosa tira l'altra. Non ho mai pensato alle dimensioni dell'album prima della fine della storia ».


Fatto sta che, nonostante i miei sani dubbi, dopo l'acquisto dei tre CD da Blutopia, ho comunque votato "The Epic" tra i piazzati del Top Jazz '15 (tanto oramai i voti sono chiusi e ve lo posso dire) ed aspettavo con trepidazione questo incontro dal vivo a conferma dei miei sentimenti che, faccia a faccia, non avrebbero avuto più filtri. E, finalmente, il 10 novembre è arrivato.


Premettendo che tutta la musica andrebbe ascoltata preferibilmente dal vivo per il totale coinvolgimento sensoriale, il clima sudaticcio dell'evento e la partecipazione collettiva, devo specificare che la band che si è presentata al MONK di Roma (ex la Palma) era in versione diversa e ridotta rispetto alla registrazione. Su tutti (che in alcune tracks su disco si contano anche più di 30 nomi tra archi e voci del coro) spiccavano per l'assenza Thundercat al basso elettrico, Cameron Graves al piano, Igmar Thomas alla tromba e Leon Mobley alle percussioni.


Ma lo zoccolo duro c'era eccome, con Brandon Coleman - aka Professor Boogie - alla tastiera ed al Moog, Ryan Porter al trombone, Miles Mosley al basso, Tony Austin e Ronald Bruner a raddoppiare la batteria e la voce di Patrice Quinn; tutti a supportare ed abbracciare il tenore di Kamasi Washington. Guest del tour Rickey Washington, il padre di Kamasi, al soprano ed al flauto, che qualche ora prima mi aveva venduto il triplo vinile in cofanetto (thx Washington Sr.!).


La lunga introduzione del gruppo attraverso il tema che ha dato forma a tutto il racconto epico, quel Change of the Guard più volte ripreso e reiterato a sprazzi lungo tutta la durata del concerto, ha da subito confermato che "The Epic" facesse perno sul continuo fine tuning tra le contrastanti sensazioni: dal vivo le singole voci erano un po' più sbilenche e naturali (e per questo più belle!), ma l'architettura portante del lavoro in studio, a tratti veniva meno. L'insieme è stato comunque esaltante, specialmente sui collettivi più infuocati e veloci e, nonostante non avessi digerito ancora l'ascolto in tripla portata, dal vivo la musica è risuonata sorprendentemente nuova in alcuni pezzi, come "Leroy and Lanisha" che si è colorato di tinte più afrobeat al MONK, lasciando diluire i toni più freefunky della registrazione o il vigoroso hardbopper di "Re Run" che sul disco viene un po' inutilmente addolcito dai cori sullo sfondo. 

photo by Lauren Lancaster

I due "standard" avevano già lasciato il segno su di me, nonostante il primo incontro anonimo a metà del GRA in un lunedì in cui mi recavo al lavoro, e l'ascolto sulla pelle non poteva che aggiungere una affascinante sfumatura al range delle emozioni (sono un sentimentale, lo so...). Cherokee è una delle canzoni d'amore più bella della storia americana, usata da Bird per la sua Ko-Ko ed incisa spesso da Chet Baker, mentre il pezzo di Debussy, reso unico da un ballabile assolo di Miles Mosley al contrabbasso, mi ha ricordato che la differenza tra un valzer ed una ballad, o tra un bianco ed un nero, è solo un confine mentale. La felice scelta di chiusura è stata affidata a "The Rhythm Changes" il pezzo forte per la voce della Quinn che sul disco avevo "classificato" come newdancingospelsoul e che i tipi hanno volutamente rallentato dal vivo, donando un'accezione ritmica al beat degna dei più sensuali e sincopati passi della Harlem Renaissance.

photo by Kevin Hill

Quasi due ore e mezza di eccitazione e turbamento senza interruzioni, con il leader che faceva spesso un passo indietro, lasciando il palco alla sua compagine, per contenere i suoi interventi nella misura ma non nella partecipazione.

photo by Annie Tritt

Ma insomma, 'sto Kamasi? ripeto a me stesso...

P Se i tre dischi mi erano sembrati un po' pretenziosi, in realtà avrei voluto che il concerto non finisse mai, e questo mi ha lasciato il pensiero di come io vivo, gestisco e subisco il mio tempo;
P Se la compilazione a tavolino di un patchwork così importante, ampio e doloroso come la storia che ha segnato tutti gli uomini del '900 (nel disco c'è anche la toccante "Malcolm's Theme" con le parole di Ossie Davis tratte dall'elogio funebre a Malcolm X) mi era sembrata un po' pretenziosa, al limite del paraculo, la performance dal vivo mi ha messo di fronte alla sincerità di quei ragazzi (lo sguardo di Washington Sr. basterebbe da solo) ed anche alla mia coscienza, perché in fondo come cazzo posso io valutare sinceramente la veridicità della Black American Music?
P Se l'architettura precisina e senza sbavature della registrazione mi aveva lasciato quello sgradevole gusto ferroso nel retrocranio, la umanità dei suoni e la variabilità delle forme, non delle intenzioni, mi hanno convinto definitivamente e fatto interrogare sul braccio forte, diretto o indiretto, del mercato americano dell'Entertainment tutto, che predilige il prodotto limato e ben rifinito all'intensità più sporca delle vere emozioni.

photo by Mike Park

Insomma, io sono ancora convinto del 1° posto che ho assegnato al Top Jazz, ma se avessi avuto questo incontro prima, probabilmente la scaletta dei miei piazzati sarebbe stata più corretta: i ragazzi di “The Epic” cucinano con un giusto mix di raffinata tecnica (narrativa e produttiva più che strumentale), ricetta storica e nuovo piccante, sanno quello che vogliono dire ed anche come lo vogliono fare e, se davvero hanno voluto mostrare di avercelo più grosso, è solo questione di natura. Questo non dovrebbe né aggiungere merito di santa filiazione, né far opporre una gratuita invidia al loro lavoro, che deve essere solo ascoltato con orecchie pure e ben aperte, ma comunque ascoltato.

Photo by Leroy Hamilton

Anche perché, sinceramente, quanti album di figurine tosti come questo siete riusciti a completare voi nella vostra fanciullesca carriera?