Ieri,
alla Casa del Jazz, ero sicuro che avrei visto la mia gente.
Tutti
quelli indignati, consapevoli, incazzati e forse anche un po' impauriti per il
declino degli equilibri mondiali che continuano ad essere scossi dall'interno
per una politica comune inesistente, per degli interessi economici che
fagocitano il valore umano, per dei recinti mentali che nessuno osa più nemmeno
afferrare, figuriamoci scavalcare...
E
invece ieri a Roma, all'apertura del tour del Tinissima Quartet per "This
Machine Kills Fascists", eravamo appena un'ottantina di persone, per
fortuna con tanti amici del "giro sensibile" del jazz. Ma io pensavo
che ci sarebbe stato tutto il mondo, che avremmo fatto la fila per condividere
questo dichiarato gesto/pretesto per partecipare, che avremmo scelto di
scendere a nostro modo ancora una volta in piazza e invece, a fine serata, mi
domandavo se questo paese fosse davvero fatto per me, e per te...
E
si perché l'ultimo lavoro di Francesco Bearzatti è, nelle intenzioni, il più
coraggioso e connesso al momento storico che ci si poteva aspettare, una dichiarazione
d'intenti che avrebbe dovuto creare scalpore in un panorama culturale
abbastanza piatto, che sembra non essere più capace di mescolarsi con la vita
reale, che non riesce più a vedere oltre i limiti imposti, che ha perso la
necessaria connessione con il tessuto sociale e che ha dimenticato anche di
saper ricordare.
Quando
abbiamo deciso di fermarci alla prima strofa? quando abbiamo smesso di cercare
le possibili risposte nascoste sotto la superficie? è stato quando abbiamo
iniziato a scattare selfie alla
nostra coscienza o quando abbiamo preferito non sporcarci più le mani, sapendo
di ingoiare un piatto insapore e velenoso, più che indigesto? E non buttiamola
sulla mancanza di tempo, che a volte la velocità è l’unico antidoto per la
pigrizia mentale.
By
the relief office, I’d seen my people/
As
they stood there hungry, I stood there asking/
Is
this land made for you and me?
As I
went walking, I saw a sign there/
And
on the sign there, It said, “No trepassing”/
But
on the other side, It didn’t say nothing/
That
side was made for you and me
Musicalmente
poi, il tributo a Woody Guthrie è il più intenso e connesso al germinale
"Suite for Tina Modotti", senza nulla togliere a "X (Suite for Malcolm)"
e "Monk'n'Roll", non solo per via del viaggio come elemento centrale
e della dimensione più folk dei due protagonisti omaggiati, ma proprio per la
texture strumentale, per l'assenza o quasi di inserti elettronici, per il forte
legame tra i musicisti sul palco, che non sembrano suonare la suite pensando
all'interplay o al call and response, ma che più “semplicemente”
restano naturalmente agganciati uno all'altro nonostante il precario, traballante
e fischiante equilibrio di tutte le relazioni, tenuti insieme più dal vento
evocato dal tributo che dalla materia dei loro strumenti, là dove ottone, terra
e legno, pelle, aria e corde si sporcano e si intrecciano tra gli sbuffi di
carbone bruciato.
Superfluo
parlare di questi ragazzi, formazione oramai ben nota e riconosciuta, con
Danilo e Zeno che compongono una delle ritmiche più trasversalmente solide,
creative e cariche di groove da far
paura alla maggior parte dei trii rock o jazz che si vogliano far chiamare, con
la voce eclettica di Giovanni che è un prolungamento viscerale che si fa
strumento e che rumoreggia e spinge, soffia, stacca e cattura l'animo (e che a
mio parere non è stato ancora correttamente posizionato nell'albero genealogico
dei trombettisti, in generale). Poi Francesco, lui che è il più punkettone dei jazzisti nostrani, che ha
presentato l'omaggio alle “Protest Songs”
dicendo che fa del "Combat Jazz"
(e qualcuno ha riso delicatamente, ma io mi sarei buttato giù dalla gradinata,
avrei alzato il pugno o mi sarei tolto il cappello se solo l'avessi avuto...),
è la chiave di volta di questa nuova struttura musicale che dovrebbe essere
presa a riferimento nel panorama artistico contemporaneo.
Quando
è partita la dolce "Okemah", città natale del leggendario folksinger,
Bearzatti era praticamente piegato su se stesso, immagine che ha visualizzato
in me la ricerca di un suo primario suono interiore (che non prescinde dai
primi dischi di standard con Giovanni Mazzarino, anzi), poi ha iniziato a
liberarsi, gettando sulle tavole del palco prima il portafoglio poi, con
"Long Train Running", lo smartphone e quando è arrivata "Hobo
Rag" ha gettato dal finestrino pure gli ultimi foglietti, scontrini e biglietti della Metro che lo
trattenevano a terra, rimanendo solo con la sua "arma", pronto a partire per un altro viaggio emozionale, tutto suo, e pure nostro...
Il
resto è stato un fiorire di sensazioni, tra una "N.Y." come finestra
aperta sulle vie del Nuovo Mondo urbano (stranamente molto meno tossica e frenetica della “America!”
di Tina Modotti), ed una "Witch Hunt" scattata come gelida istantanea
per niente sbiadita della Guerra Fredda, invase dalla reprise rassicurante di Okemah per arrivare a "One for Sacco
and Vanzetti", risposta poetica e sanguigna al Maccartismo ed all'unica
cover dell'album, quella "This Land Is Your Land" composta da
Guthrie sulla base del gospel "When the World's on Fire" che è diventata
il vero inno dell'America più vera, lontana dalle retoriche di "God Bless
America". La chiusura è spettata a "Mandi Friul", la traccia che
apriva la suite per Tina Modotti e non so perché non ho pianto, eppure tutto
tornava.
Eravamo
appena un'ottantina di persone ieri a Roma, all'apertura del tour del Tinissima
Quartet per "This Machine Kills Fascists".
Mi dispiace per tutti
quelli che non hanno potuto sentire di essere ancora vivi e peccato che c'erano
quelle cazzo di sedie in mezzo perché sennò avrei violato il confine del palco
con la ragazza che mi era seduta accanto, avrei ballato il rag con Federico,
Pasquale, Dario, Giampietro o Enzo, mi sarei attaccato alla maniglia del primo
treno sbuffante sogni ed avrei teso la mano a Francesco, Giovanni, Danilo e
Zeno, dividendo con loro quelle quattro cose che ci saremmo trovati in tasca e
scaldando il vagone bruciando almeno per l’ultima volta i nostri fibrosi cuori.
“L’America, dunque” – scrive Alessandro
Portelli, a proposito dei versi eliminati dallo stesso autore nella prima
versione pubblicata di "This Land
Is Your Land" – “era stata fatta per
quelli come me e come te, per la gente comune, per i disoccupati in fila per
una minestra; ma qualcosa ci impedisce di goderla, e si chiama proprietà
privata” (A. Portelli, Woody Guthrie e la cultura popolare americana,
Sapere 2000 ed., Roma 1990, pag. 181).
una recensione malinconica ma da favola!
RispondiEliminala metto sul mio modesto blog.