La
storia della musica è zeppa di musicisti che non hanno mai avuto il
riconoscimento pubblico che avrebbero meritato. È qui inutile citare esempi
clamorosi; è molto meglio restare nell’attualità facendo parlare uno di questi,
Larry Nocella, sassofonista di alta levatura, musicista completo e maturo che,
però, fatica non poco per trovare una sua giusta collocazione e i
riconoscimenti che senz’altro merita.
Carlo Verri: Larry, raccontaci da dove provieni e come e dove si
sono svolti i tuoi anni di apprendistato musicale.
Larry Nocella: Io sono campano, di Battipaglia, città dove sono
nato trent’anni fa. Ho passato molti dei miei anni in collegio, dall’età di tre
anni fino a quando ne avevo diciassette-diciotto. In collegio c’era una banda –
tutti i collegi che si rispettano ne hanno una – e io ho cominciato ad
avvicinarmi alla musica in questo modo. La direzione affidava ai ragazzi uno
strumento a seconda delle necessità della banda e a me fu affidato, all’inizio,
il tamburo, proprio quello che si lega alla cintura; poi mi diedero il trombone
a pistoni e infine il clarinetto. Notarono che su quest’ultimo strumento andavo
abbastanza bene. Finite le elementari, mi mandarono addirittura al
Conservatorio di Napoli, San Pietro a Maiella, dove mi ammisero subito al secondo
anno facendomi saltare quello che viene chiamato di esperimento e anche il
primo anno effettivo. In poche parole, pur frequentando due soli anni di
Conservatorio, mi sono trovato al quinto anno. Certamente avevo molto tempo per
studiare e i professori mi sostenevano, forse perché avevano notato in me tanta
voglia di suonare e anche un po’ di stoffa, come si suol dire.
CV: Però, a quel che mi risulta, non hai preso il diploma.
LN: No, purtroppo. Un po’ per ragioni familiari e un po’ per cominciare ad
affrontare la vita da un punto di vista più pratico, lasciai il Conservatorio e
incominciai a lavorare, dimenticando per un certo periodo anche la musica.
Passato qualche tempo, ricominciai a suonare in una sala da ballo di Napoli,
dove si faceva anche jazz, e fu così che mi avvicinai a questa musica che è
diventata in seguito il mio mestiere. Nel frattempo avevo anche cambiato
strumento, passando al sax tenore, che è poi quello che uso tutt’ora. In quel
periodo il musicista che mi impressionava di più era Sonny Rollins, la pazzia,
tra virgolette, di quest’uomo, il suo modo di concepire la musica, le frasi
spezzettate, il muoversi ritmicamente, il dare tanto valore alle pause. Ho
imparato molto da Rollins e ho avuto anche un periodo feticistico nei suoi confronti,
sino a raparmi a zero, per cercare di imitarlo dal punto di vista fisico.
CV: Forse la cosa coincise con la tua conoscenza di altri musicisti?
LN: Esatto, in quegli anni ho incominciato a conoscere e
amare un altro grande del sax, John Coltrane. All’inizio, per la verità, non
capivo quest’uomo che faceva un miliardo di note, ma col tempo compresi che in
Coltrane c’era anima, feeling, amore, cose piuttosto rare.
CV: Sei stato anche accusato di imitare Coltrane. Come
mai?
LN: Il fatto per me è molto semplice. Sonny Rollins,
John Coltrane e Charlie Parker sono stati dei maestri e dai maestri s’impara
sempre, lasciano un segno dentro di te. io non mi vergogno affatto di
riconoscere di essere stato influenzato dai musicisti sopracitati e anche da
altri. Certo, riconosco che Coltrane è uno dei musicisti che amo di più e
quindi è anche logico che influenzi maggiormente la mia musica. È anche vero,
però, che in quel suono non c’è solo influenza altrui ma anche idee mie, il mio
suono, la mia sensibilità.
CV: Facciamo un piccolo flash-back: eravamo rimasti a
quando suonavi nelle sale da ballo di Napoli, poi sei venuto a stabilirti a
Milano. Perché?
LN: La risposta è semplice: a Milano c’erano molte più
possibilità di lavoro che a Napoli. Era, con Roma, la città più viva
jazzisticamente parlando. Una sera capitai al Capolinea [uno dei templi del
jazz milanese, ndr] e mi accorsi che era un punto focale dell’attività
musicale. Continuai a tornarci ed entrai nel giro giusto. Di qui inizio la mia
vera attività da professionista. Cominciai a collaborare col pianista Mario
Rusca, col batterista Tullio De Piscopo e con molti altri musicisti che
ruotavano (molti ci sono ancora) nell’orbita del Capolinea. Fu anche una bella
scuola per me; imparai a migliorarmi continuamente, spinto dall’inevitabile
competitività con gli altri. A un certo punto raggiunsi una mia maturità, non
mi sentivo più l’ultimo arrivato, i musicisti mi stimavano e mi chiamavano a
collaborare con loro.
CV: Che musica fai? Quali sono le tue preferenze oltre a
quelle cui abbiamo già accennato?
LN: La base della mia musica è la tradizione jazzistica
e perciò anche i musicisti di cui sopra, ma anche Mingus, Lester Young, Coleman
Hawkins, etc; tempo fa ho provato a dedicarmi alla musica cosiddetta d’avanguardia, ma non ero preparato, mi
mancavano ancora delle basi sul tradizionale per spingermi fino a ciò. Tra
l’altro la cosa mi è stata fatta notare anche da Kenny Clarke, il batterista
che tanto ha contribuito alla rivoluzione del bop, che mi ha spinto ad intensificare
i miei studi per avere una completa padronanza e conoscenza del jazz fino al free e poi, casomai, dedicarmi ad esso.
La mia sbandata free, anche dopo le parole illuminanti di Clarke, è finita
rapidamente ed oggi suono completamente nella tradizione.
CV: Godi di ottima stima da parte di jazzisti americani,
inglesi, o comunque stranieri, vuoi parlarcene?
LN: Non è molto facile, per me, parlare di queste cose.
Certo direi il falso se nascondessi che musicisti come Freddie Hubbard, Chick
Corea, Jack De Johnette, Art Blakey, Chet Baker e altri non mi stimano e non mi
amano. Questo è vero. Con molti c’è un vero e proprio vincolo di amicizia, mi
scrivono spesso, e Chet Baker, per esempio, mi voleva anche inserire nel suo
gruppo, farmi girare il mondo. Per varie ragioni io non ho accettato, non certo
per fare la star, anzi ero e sono molto onorato e felice di un simile
comportamento verso di me, ma io sono italiano ed è qui che voglio lavorare.
CV: Quali interventi discografici hai fatto finora?
LN: Ho collaborato con musicisti come De Piscopo, Rusca,
Angelo Arienti, Giancarlo Pillot, Julius Farmer, incidendo dischi a loro nome.
Solo recentemente mi è accaduto un fatto molto importante. Tre musicisti
americani, Dannie Richmond, Cameron Brown e Bob Neloms, hanno accettato di
collaborare con me alla realizzazione di un disco tutto mio. Ho potuto fare le
cose che dicevo io e come volevo io e loro mi hanno assecondato in modo a dir
poco squisito. Certo non capita tutti i giorni di fare un disco con musicisti
di questo calibro, personaggi che hanno suonato con Mingus, Archie Shepp, etc,
che hanno accettato di buon grado di suonare con me. Era finalmente ora che mi
capitasse l’occasione buona, auspice l’onnipresente Red Record, e vi assicuro
che, nel nostro piccolo mondo del jazz, la cosa non è di quelle che passano
sotto silenzio.
Intervista a Larry Nocella, a cura
di Carlo Verri, pubblicata in origine sul mensile HI-FI, aprile 1981,
ripubblicata in Qualunque Cosa Mi Accada,
a cura di Silvano Arcamone e Carlo Verri, Stampa Alternativa, luglio 1997.
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Credits:
Larry Nocella
Everything Happens
To Me
Label: Red Record
Catalog#: VPA 167
Format: LP
Country: Italy
Recorded at Music Center ,
Larry Nocella
(tenor sax),
Dannie Richmond
(drums),
Cameron Brown
(bass),
Bob Neloms (piano)
Tracklist:
A1. Rose - 7:57
A2. Central Park
West - 6:46
A3. Along Come
Betty - 5:41
B1. Nakatini
Serenade - 7:00
B2. Everything
Happens To Me - 8:00
B3. The Days of
Wine and Roses - 5:40
Bella ciao !
RispondiEliminagrazie di aver esaudito la mia richiesta e grazie anche da parte di chi scoprirà da questo post un musicista meraviglioso.
RispondiEliminaAlessandro
Si potrebe avere di nuovo un link valido per questo disco che sembra geniale? Grazie
RispondiElimina