giovedì 25 febbraio 2021

Del buon Jazz e della cattiva sorte _ Prologo al Jazz in Italia 1960 / 1990


«Verrà la sorte e non avrà spietati occhi,
avrà più un ghigno unto sul muso
per ricordarti che sei solo un illuso»


Per ironia della Sig.ra di cui sopra, sorella minore della famigerata M. ma, non per questo, meno dolorosa, quando lavoravo come un pazzo per dodici ore al giorno, ero subissato di contatti e la mia cassetta delle lettere straboccava di nuove uscite letterarie/discografiche, al punto che, nel culmine dell’ansia da prestazione e nel rispetto degli autori, decisi di uscire dai votanti del Top Jazz, dichiarando apertamente che non avrei potuto dare seguito alle loro richieste sul blog e, pertanto, di interrompere gli invii.

Quando poi ho deciso di interrompere il vizioso circolo del produci/consuma/crepa, liberando così buona parte del mio tempo nell’intenzione di produrre contenuti più sani per me e diversamente utili per altri, la Sig.ra di cui sopra si è messa tutta in ghingheri, appunto, ed ha deciso d’impartirmi l’ennesima lezione facendo tabula rasa, o quasi, di tutto quello al quale avrei voluto dedicarmi a tempo pieno, sbattendomi in faccia l’amara considerazione che noi non siamo nemmeno i burattini di questo gioco più ampio (che almeno una maschera ed un ruolo ce l’hanno), ma più quei fili sottili e trasparenti che ogni tanto s’intravedono, per caso o per errore, tra l’inizio della storia e l’iposcenio.

Ma bando alle ciance noiose e malinconiche che, ne sono certo, ne avrete tutti le palle già piene e puntiamo al cuore del post!

Dal momento che immagino questa stasi come ancora lunga e tediosa, ho deciso di rinnovare il blog non con il solito post autoconclusivo, ma con una specie di poding a puntate di più ampio respiro (la fusione delle parole scopritela voi), tipo ‘no sceneggiatone RAI, se siete boomers o, una scoppiettante Serie TV, per quelli della Gen-X, provando a non sprecare tutte le energie al principio del guado, per godermi il panorama nel frattempo, pur se paludoso e, soprattutto, nel tentativo di colmare un buco bibliografico che è quello riferito al Jazz suonato ed inciso nel nostro Paese dai mitici anni Sessanta (dove inspiegabilmente si ferma la ricerca vergata da Mazzoletti, che ancor oggi è quella che scende più in profondità sul tema [sic!]), fino alla fine degli anni Novanta. 

Tre decadi in cui si sono strutturate le label più rappresentative in questo ambito, come HORO, DIRE, Black Saint o Splasc(H), solo per citarne alcune, in cui l’autoproduzione ha dimostrato di poter essere una via percorribile, anni in cui molti dei nostri talenti, oggi noti in tutto il mondo, hanno cominciato a muovere i loro primi passi per andare via di casa e diventare grandi, in cui c’è stato il vero boom culturale italiano, che non si è certo fermato ai rinomati Sixties. 

Trent’anni, fino a quegli anni Novanta dove l’interesse per il Jazz italiano sembra essersi poi sfibrato, spezzato (o, più semplicemente, andato in overdose). Eppure, anche dei successivi venti, fino ad oggi, insomma, ce ne sarebbe da dire… 

Ecco. 

Se oggi avevo iniziato a scrivere il primo capitoletto di questa storia, con l’intenzione di chiedervi se conoscevate Esophagus e Egyptology, due delle tracce con i titoli più curiosi del Jazz nostrano, il prologo è uscito fuori da solo prendendosi tutto lo spazio e lasciandomi ancora una volta in balia degli eventi che, se lo vorrete, si dipaneranno al prossimo capitolo. 

Forse. 


«Verrà senza notifiche né remind,
verrà a colpo sicuro
non perde tempo a scaldare gli ottoni, Lei
la sorte suona il tamburo»
Poeta anonimo e dilettante

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