Finalmente
è uscito!
In
questi giorni è in libreria per i tipi di Arcana, nella collana Jazz diretta da
Vincenzo Martorella, la seconda edizione del fondamentale libro che Carola De
Scipio aveva dedicato a Massimo Urbani, oramai quindici anni fa.
Lavoro
indispensabile già in origine, non solo perchè era praticamente l'unico profilo
del sassofonista romano, interessante non solamente per la scelta di utilizzare
le tante testimonianze di chi aveva conosciuto, frequentato o suonato con
Massimo, "L'Avanguardia è nei Sentimenti" era uno dei più
affascinanti ritratti in jazz per via di quella regia unica che l'autrice era
riuscita ad ottenere orchestrando le tante voci raccolte, strutturando i vari periodi
in una storica architettura complessiva ed armonizzando le emozioni,
contrastanti ma sempre toccanti, che la fiammeggiante meteora di Massimo Urbani
aveva riflesso sul popolo del jazz.
Libro
basilare, dicevo, che in questa nuova veste è diventato bellissimo:
una
forma più adeguata, sia in leggibilità che in ordinamento grafico, cinque nuove
voci aggiunte al coro (Carlo Atti, Roberto Del Piano, Gaetano Liguori, Carla
Marcotulli, Pietro Tonolo), moltissime fotografie inedite di Roberto Masotti
che ci regalano una più sfaccettata immagine del nostro, anzi un vero vibrante ritratto, ed una discografia aggiornata al 2014 che tenta di fare
ordine e di dare il giusto rilievo attraverso i documenti sonori official o meno, nella storia
musicale di Massimo Urbani.
La
discografia è curata da me, ma non è questo il motivo che mi spinge a
raccontare questo libro sulle pagine del mio blog. Ho amato quel testo da subito, l'ho apprezzato
per la sua forma d'istantanea senza giudizio alcuno, l'ho letto, consultato,
sfogliato e riletto come si fa con un saggio o con un libro di poesie e, già
nel settembre del 2008, l 'avevo utilizzato come base reale di un racconto immaginario che oggi ripubblico per
l'occasione.
Non
perdetevi questa seconda chance per avvicinarvi nel profondo ad uno dei più
appassionanti musicisti del jazz.
IL BORGATARO DELLE STELLE
Stranamente,
non c'era musica nell'aria.
Nella
stanza solo una forte luce biancastra, che illuminava i mucchi di panni sporchi
e le bottiglie vuote lasciate sul pavimento.
Massimo
distolse gli occhi dalle crepe che disegnavano il soffitto,
si
alzò dal letto e in un attimo fu di fronte alla finestra.
Nonostante
fosse la fine di Giugno, sulle finestre c’erano ancora le buste di plastica che
Ivano aveva fissato con il nastro adesivo, per non fare entrare il freddo. Un
gesto semplice che dimostrava amicizia e protezione. "My
Brother", pensò, sentendo l'emozione salirgli dal petto come una marea. Era
passato molto tempo dall’ultima volta che si erano incontrati, troppo.
Massimo
guardò quel telo di plastica che vibrava al vento e trasformava la luce del
sole in una nebulosa biancastra e innaturale, come quella di certi ospedali o
quella artificiale che si usava nei teatri. Niente di più lontano da quegli
ambienti morbidi di penombra in cui amava suonare.
Gli
passò per la mente che quella poteva essere la luce che molti raccontano di
aver visto in fondo al tunnel della vita.
Rimase
lì, ad ascoltare il ritmo del vento, delicato come un sussurro di spazzole, e
decise di lasciarlo andare ancora un po’. Yeah,
che almeno quella busta spezzasse quell’ovattato silenzio.
Si
voltò e fece lo stesso percorso per tornare a letto, pensando che in quei
giorni sarebbe dovuta iniziare la stagione estiva dei concerti romani, in quei
locali all’aperto che prima lo avevano accolto come un grande del Jazz, con gli
amici che accorrevano per sentirlo suonare e gli organizzatori che gli
offrivano da bere e gli preparavano magici incontri con le stelle d’oltreoceano.
“Urbani, l’enfant prodige”
“Massimo, la rivelazione del Jazz italiano”.
“Massimo, la rivelazione del Jazz italiano”.
“La precoce genialità di Massimo
Urbani”
Ora
sembrava che nessuno volesse più ascoltare le storie che raccontava con il suo
sax, pareva che tutti lo evitassero, che la sua musica fosse troppo
imprevedibile e diretta, proprio come la sua vita.
Finalmente
raggiunse il letto, anche se gli sembrò di averci impiegato un’infinità di
tempo.
Guardò
il telefono a lungo, come per trovare una risposta a nessuna domanda, ma quello
restò muto, inutilmente presente sul pavimento.
Massimo
allora si sdraiò e decise di aspettare,
di
aspettare ancora un po’.
I
don’t know why but I’m feeling so sad
I
long to try something I never had
Never
had no kissin’
Oh,
what I’ve been missin’
Lover
man, oh, where can you be?
.
Riaprì
gli occhi di colpo, come se qualcuno lo avesse chiamato, ma la stanza era
sempre vuota, ora tinta di un giallo caldo per via del giorno che volgeva al
termine.
Si
mise seduto sul letto, raccolse un uovo sodo dal pentolino vicino al telefono,
ed iniziò a sbucciarlo.
Quanto
tempo era passato da prima?
Strano
concetto il tempo, per lui che ne aveva uno interno dalle mille cadenze, sempre
nuovo e irriconoscibile ai più.
Sorrise
ricordandosi la faccia di Enrico, che una volta gli regalò un orologio, al
quale lui chiese un manuale per farlo funzionare.
Enrico
si che gli voleva bene, lo accettava così com’era, lo aveva spinto a credere in
se stesso, l’aveva portato in America, gli aveva fatto incidere il suo
primo disco con Calvin e Nestor, quella ritmica americana che era tutta
un’altra cosa.
Enrico
era come un fratello maggiore, “e c’aveva
er feeling”, pensò.
Finalmente
qualcuno che si prendeva cura di lui, mica come Giorgio, il professorone, che si
voleva prendere più i meriti della sua musica che altro.
Enrico,
caro Enrico, era ieri o vent’anni fa?
Prese
un bottiglia, senza scegliere, soppesando solo il contenuto e ingurgitò tre,
quattro sorsate come fosse acqua.
Ma
quel liquido denso gli strinse lo stomaco, e lo convinse a raggiungere
nuovamente la finestra per guardare in faccia il sole, prima che questo andasse
a morire.
Tolse
la busta di plastica, scusandosi quasi con Ivano, che tanto amore aveva
impiegato per stenderla da tutte le parti e, all’improvviso, il
cielo di Roma gli si svelò davanti.
I
suoi occhi toccavano piazza Guadalupe, che sembrava piccola e delicata,
protetta da una cinta di alberi, più in là seguivano il ritmo incessante che scorreva
su via Trionfale e lassù, proprio vicino al cielo, c'era Monte Mario, dove si andava
a vedere le stelle.
Questo
lo fece stare bene, per qualche ora o pochi minuti, sorridendo la sua gioia in
faccia al sole, che ora era rosso, grosso e basso come una bolla di fuoco
spuntata là, dove finisce la città.
“Il più bel posto del mondo” disse ad alta voce e, subito, si stupì del suono
della sua stessa voce, che era sempre stata alta, delicata e anomala per il suo
corpo ma ora, più che mai, sembrava appartenere ad un altro. Forse
era perché non la sentiva da troppo tempo?
O
forse perché qualcosa era davvero cambiato dentro?
Questo
lo rese agitato.
Lui
che aveva sempre improvvisato, pensando di non essere più se stesso, divenne
furioso.
Correndo
da un angolo all’altro della stanza cercò tra i cumoli di roba sparsi sul
pavimento, calpestò i suoi dischi, distrusse bicchieri, buttò all’aria i libri
di studio, rovesciò il letto, spostò mille e mille buste di rifiuti e poi,
finalmente, in un angolo vuoto, trovò il suo strumento. Lo
afferrò, corse fuori e salendo le scale, in un attimo, fu sul terrazzo dove
il cielo sembrava più vicino ed il sole era ancora alto. I
tasti disegnavano una geografia familiare sotto le sue dita, perfettamente
delineati, in ordine e sempre al loro posto. Imboccò lo strumento senza alcuna
accortezza e, quando iniziò a soffiare, tutto si calmò.
Il
blues era una medicina fantastica e la sua voce, unica e ineguagliabile, non lo
aveva abbandonato, era rimasta con lui.
Lei
non lo avrebbe lasciato mai.
The
night is cold and I’m so alone
I’d
give my soul just to call you my own
Got
a moon above me
But
no one to love me
Lover
man, oh, where can you be?
All’inizio
delineò piano una melodia, solo per Lui e per il suo strumento. Poi, in
crescendo la portò in alto, soffiando con forza tutto il suo amore per la tradizione,
omaggiando i Maestri suoi amici con l’uso delle loro frasi, con la forma appena
accennata dei loro ricordi. Una dedica così bella e toccante che tutti i
passanti si fermarono ad ascoltare. Poi,
come aveva sempre fatto, cercò la propria via, dolorosamente e con la stessa
facilità e naturalezza che aveva nel respirare.
La
melodia esplose, frastagliata in mille schegge lucenti ed in ognuna si
percepiva la tensione, la partecipazione, la fatica fatta di sangue e di
sudore, l’amore
che Massimo nutriva per il suono. Lottò
duramente con il suo pensiero veloce come il lampo e sfinì le sue dita, perse
nell’inseguimento di un sogno irraggiungibile, quello di un ragazzo di Monte
Mario che voleva suonare a tutti i costi il Jazz.
La
disperazione si manifestò con un grido alto, caldo e metallico allo stesso
tempo, che fece fermare tutte le persone, al di là dei confini del quartiere,
del paese o di questo mondo, chiedendosi da dove arrivava tanta bellezza, da
dove nasceva tanto amore.
Domandandosi nell'intimo come si poteva sopportare tanto dolore.
Suonò
per un tempo interminabile, per il mare e per il sole, per la luna e per le
stelle, con gli occhi rivolti al cielo e lo strumento lontano dal corpo, che andava
verso l’alto come se dovesse spiccare il volo. Solo il suo peso corporeo lo teneva
ancorato su questa terra, come una zavorra, come uno scomodo ostacolo.
La
sua voce, il suo soffio, la sua musica tutta era di un altro pianeta e sembrava
volesse tornare a casa. Suonò
per Bird, suonò per Trane e per il povero Albert, pensò a Sonny ed al caro
Larry, che erano tutti lì con lui, che erano lì per Lui.
A
quel punto, per un momento dispensato dal dolore, piegò la melodia su se stessa,
che tornò all’origine, toccando con morbide linee quelle frasi che tanti
avevano suonato, donando un corpo nuovo ad un abito usato e, con dolcezza,
terminò la frase da cui era partito.
L'aria
era carica di una tensione incredibile, tangibile, visiva, come ogni volta che
Massimo imboccava il sax.
Nonostante
avesse suonato con una dolcezza inaudita, scegliendo le parole più semplici per
raccontare dal profondo le emozioni ed i sentimenti, si percepiva che il dolore era sempre dietro l'angolo, si sentiva che la rabbia era sempre in
agguato, pronti ad assalire lui e la coscienza di tutti quelli che, anche per
caso, si trovavano a sfiorare la sua persona.
Il
silenzio che seguì era argenteo, elettrico come quell’istante indefinibile che
nasce tra la fine della canzone e l’inizio dell’applauso, che appartiene ancora
alla musica ed al suo creatore, ma è già di pubblico dominio. Nessun rumore,
anche il vento si era fermato.
Tutto rimase attonito, sospeso da questa vita comune in un attimo di Poesia
creativa, in silenzioso rispetto al cospetto del suo creatore.
Nessun
applauso.
Massimo
aprì gli occhi e, infatti, non vide nessuno.
Quando
staccò lo strumento dal suo corpo, il sole era ancora lì, ora meno caldo e
appena un poco più basso, come se fossero passati solo pochi minuti.
Non
era cambiato niente, era cambiato tutto.
Massimo
sentì tramontare la vita dentro.
Da
quanto tempo durava?
Trentasei
anni o un giorno??
Se
anche avesse avuto ancora tempo, sarebbe stato capace di raccontare altro, Lui
che non avrebbe mai suonato la stessa cosa per due sere di seguito?
I’ve
heard it said
That
the thrill of romance
Can
be like a heavenly dream
I go
to bed with a prayer
That
you’ll make love to me
Strange
as it seems
Venne
quel momento della giornata in cui è già tardi per cenare ed è
ancora presto per andare a bere con gli amici.
Massimo
aveva sempre mangiato male, scegliendo a caso come senza alcuna direzione. Solo
la pasta alla carbonara aveva un posto di privilegio nei suoi gusti, ma ora
non mangiava quasi più.
Prese
un’altra bottiglia qualunque, si riempì un bicchiere di cartone fino all’orlo,
bevve in un solo sorso e decise di uscire, da solo.
In
fondo la solitudine lo aveva sempre accompagnato nella sua musica.
Appena
sceso in strada riconobbe l’odore del suo quartiere.
Lui
era cresciuto lì, ma non su via Balduina o in via Cortina d’Ampezzo, la parte dove
ci sono le case dei dottori e degli avvocati, con i portieri in livrea e le
sbarre dappertutto.
No,
lui era nato nelle case popolari di Monte Mario, e ne era orgoglioso.
Dalla
fine di via Aristide Gabelli, dove abitava ora, ci metteva due minuti a piedi
per raggiungere piazza di Nostra Signora di Guadalupe, il centro del quartiere,
il centro del mondo per Massimo. Quante
volte si era seduto su quelle panchine, sotto gli alberi della piazzetta con
Chet Baker, Don Cherry, con Dave Liebman o Sal Nistico.
Ma
oggi non c’era nessuno seduto vicino a Lui e questo non gli piaceva.
Pensò
allora di andare dal sor Antonio, “er
man” del “bar delle palmette”, che anche se era li per vendere, una parola
per Massimo la trovava sempre.
Si
alzò dalla panchina, attraversò la piccola piazza e subito, all’inizio di via
Augusto Conti, trovò il bar.
L’insegna
al neon disegnava “Sissi Bar” con una luce viola che non poté fare a meno di
notare. “Sissi Bar”, così c’era scritto, e dentro del sor Antonio neanche
l’ombra. Sedette ugualmente al bancone, ordinò da bere e si guardò intorno.
Niente,
non riconosceva niente di quel posto.
E
si che c’era stato mille volte con Ivano, lo zio Luciano e gli amici del
quartiere.
Massimo
pensò che era colpa sua.
Pensò
che ci aveva messo troppo ad attraversare la piazza, che il tempo, il Suo
tempo, non era come quello degli altri, e che lo portava su e giù per i piani
della vita come un ascensore impazzito, a volte troppo velocemente o, altre
volte, lasciandolo inesorabilmente indietro.
Il
tempo era il padrone della melodia della sua vita.
Come
quella volta che con Furio, Luigi e Paolo decisero di mettere su un gruppo.
Passavano gli anni ed i giorni a suonare, a bere Campari con Gin, a parlare di
Chet o di Dexter. Grazie ad Alberto Alberti questi quattro amici suonavano nei
festival più importanti e si trovavano a dividere il palcoscenico con Freddie
Hubbard o Jack DeJohnette o Woody Shaw. Fecero un disco molto bello con
l’etichetta di Sergio Veschi e affittarono perfino una stanza a Procida per
starsene un po’ al mare.
A
ricordarlo ora sembra un sacco di tempo passato insieme, mentre
lo vivevano sarà durato un attimo.
Il
tempo è un grande improvvisatore, pensò Massimo, mai uguale a se stesso.
Uscì
da quel bar sconosciuto da sempre e tornò in piazza, questa volta contando i
passi.
Scelse
un panchina, dal momento che erano tutte vuote e stette lì, a guardare la vita.
Passò
una signora grassoccia con le scarpe troppo larghe e una macchina della
polizia.
Tutto lì.
Someday
we’ll meet
And
you’ll dry all my tears
Then
whisper sweet
Little
things in my ear
Hugging
and a-kissing
Oh,
what I’ve been missing
Lover
man, oh, where can you be?
“Tancredi, Di Bartolomei, Nela,
Vierchowod, Maldera, Falçao, Prohaska, Ancelotti, Iorio, Pruzzo e Bruno Conti,
che è il più Jazz di tutti…”
A
questo pensava quando si sentì chiamare per nome.
“Massimo, Massimò…”
Sorpreso
e felice di ascoltare il suono del suo nome ancora una volta, aprì gli occhi e
si trovò davanti un ragazzo di cent’anni che gli sorrideva con la pelle della
faccia accartocciata sul teschio e appena qualche dente in bocca.
“Sò Italo, er fratello piccolo dei
Ruscio, te ricordi?”
Massimo
guardò quel viso come si osserva un complicato reticolo di linee aerospaziali,
con la stessa attenzione di quando si studia una cartina stradale.
“cioè, sei er pulcetta ?” disse non credendo alla sua stessa, infallibile,
memoria che ricordava quel vecchio, appena un attimo fa, come un ragazzino di
dieci anni che giocava a pallone in piazza con i calzoni corti.
“e si, so io. Mà, nun è che c’avresti
venti sacchi pe comprà un po’ de robba a mezzi, eh Massimè?”
La
“robba”.
Lui
non ci pensava sempre, ma ora sembrava l’unico aggancio per non restare solo,
un pretesto per dividere un po’ di tempo insieme con qualcuno, una lieve
medicazione per assopire almeno un po’ il dolore dei suoi ricordi.
“si, vabbè, tiè stì ventisacchi, però
nun ce vado io a compràlla, vacce tu, io t’aspetto a casa de mì madre, che lì
mò nun c'è più nessuno...”
Massimo
si alzò dalla panchina, tirandosi su i jeans sempre un po’ corti e s’incamminò
senza salutare, 'chè quello, per lui, in fondo non era nessuno.
Poi
si voltò e sorridendo appena disse forte “ciao purcè…” che oggi per lui, quello lì era tutto.
Uscendo
dalla piazza passò davanti alla chiesa.
Era
lì che aveva cominciato a suonare, a dodici o tredici anni, con la banda di
Monte Mario, in quello stanzone dove Jeannot lo sentì suonare il sax e gli
disse "continua, e sarai il migliore
del mondo".
Nel
cortile guardò con affetto i giochi colorati dei bambini e, per un attimo,
pensò a Valentina, che stava a Bologna ed alla faccia che avrebbe potuto avere
il piccolo Massimetto, il figlio che la sua donna portava in grembo.
Non
pensò ad altro aprendo l’ennesimo pacchetto di sigarette, questa volta senza
distruggerlo. Restò qualche momento stupito e commosso di tanta delicatezza.
Proseguì
per qualche passo sulla sua vita, passando per via Augusto Conti, per poi
girare subito a sinistra in via Agostino Dati, verso casa. Lì, proprio
all’inizio, c’è sempre stato un negozietto di dischi, ed allora gli venne in
mente quando in vetrina trovò “360° AEUTOPIA”, il suo disco con Beaver, Cameron e
Ron al piano.
Forse
la più bella macchina ritmica che avesse mai guidato.
Pensando
al titolo non poté fare a meno di sorridere amaramente davanti ai grandi giochi
del destino, crudele e beffardo.
Ora,
in quella vetrina, non solo non trovava più il suo nome, ora lì non c’era
proprio più niente. Provò meno dolore quando si accorse di non riuscire a vedere
neanche la sua immagine riflessa.
Il
vetro rifletteva solo la strada, le macchine parcheggiate ed una fontanella
dalla quale non usciva più niente.
Provò
anche ad alzare il braccio, come per un saluto, per confermare quello che nella
sua testa già pensava.
Il
vetro, rimasto vuoto e impassibile, lo spinse con più fretta verso casa.
Arrivato
sotto le palazzine, si fermò al primo portone, guardando la finestra del primo
piano. Lì ci abitava Ivano.
La
luce era accesa e, dalle persiane accostate, Massimo poteva vedere la sagoma
della madre che si muoveva nella cucina. Pensò anche di andare a trovarla, di
non salire a casa sua ad aspettare “il pulcetta” con la robba, di passare da lei soltanto per salutarla, ma ebbe il terrore di non riconoscerla.
Entrò velocemente al suo portone e salì le scale fino al secondo piano, dove c’era la casa
dove era nato. Girò la chiave e aprì la porta, in casa non c’era nessuno.
Maria
Teresa, la madre, era morta da tempo.
Massimo
si fece una carezza da solo, pensandola.
Il
fratello Maurizio viveva dalla fidanzata, Marco era a Belgioioso, in comunità,
ed i più piccoli, Gianni e Barbara erano, come sempre, al lavoro o in giro.
Anche
Ugo, il padre, se ne era andato da poco. Massimo
ricordò le risate con i fratelli quando Ugo, un omone grande e grosso in
canottiera e bretelle preparava i panini al prosciutto a Chet, che era già
senza denti e che impiegava due ore di orologio per mangiarli.
Oppure
quando il padre tornava a casa dal lavoro, metteva su un disco di Coltrane,
senza sapere chi fosse, si sedeva sul balcone, sempre in canottiera e bretelle,
e piangeva per la commozione.
Massimo
accese la televisione.
Trasmettevano
“i soliti ignoti” che a lui piaceva tanto.
Abbassò
tutto il volume aspettando “il pulcetta” eppure, stranamente, c’era musica
nell’aria.
I
don’t know why but I’m feeling so sad
I
long to try something I never had
Never
had no kissin’
Oh,
what I’ve been missin’
Lover
man, oh, where can you be?
Note al testo:
Il corpo di Massimo Urbani morì la notte
tra il 23 ed il 24 giugno 1993.
La musica di Massimo è ancora viva, e si trova al fianco
delle stelle del Jazz.
Questo mio scritto deve tutto alla musica di Massimo, un
ragazzo di borgata che aveva uno spiccato senso per la vita ed una conoscenza
profonda della musica dei suoi idoli d’oltreoceano.
Devo molto anche al lavoro di Carola De Scipio “l’Avanguardia
è nei Sentimenti – Vita, morte, musica di Massimo Urbani” Stampa Alternativa,
Roma, 1999, ed al bellissimo modo di raccontare vite in Jazz di
Geoff Dyer.
Immagini di Jean-Michel Basquiat (December 22, 1960 – August 12, 1988)
delle tante e preziose novelle che racconti a me pare di doverne anteporre innanzitutto una: che bello poter tornare a leggerti!
RispondiEliminami sei mancato, ma ora sei qui.
a presto
borguez
Bentornato, sei mancato (e non poco) anche a me
RispondiEliminaLibro appena ordinato. Grazie per la segnalazione.
RispondiEliminaL'ho già letto 4 volte, e continuo a commuovermi. Come mi successe quando Carola venne nella mia "tana dell'orso" a farmi raccontare il "mio" Massimo. Passano gli anni ma il dolore è sempre lo stesso. Non ci sono le medicine adatte, o almeno io non le ho trovate.
RispondiEliminaRoberto Del Piano
ho comprato il libro finalmente l'ho trovato grazie per la discografia ci sono dei link tinyurl.com per alcuni live ma non trovo nulla puoi aiutarmi?
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