Nel
70° anno di vita della rivista Musica Jazz si è appena concluso il trentunesimo
Top Jazz, che ha visto l’affermazione di Franco D’Andrea (Merano, 8 marzo 1941),
ai primi posti in due delle categorie “italiane” e di Wayne Shorter (Newark,
New Jersey, 25 agosto 1933), sul podio, per il jazz internazionale, in tre categorie.
Sul
numero attualmente in edicola della rivista trovate tutti i risultati, ed il
solito prezioso estratto sonoro a completamento della classifica, mentre sul sito web di
Musica Jazz i voti di ciascun giurato
per le singole categorie.
D’Andrea,
che è sicuramente uno dei musicisti più interessanti ed originali del nostro
panorama, è da sempre stato un assoluto protagonista del premio Top Jazz,
infilando cinque vittorie consecutive fin dalla prima edizione del 1982, per
poi dissolversi all’ombra di Enrico Rava nel decennio degli anni Novanta.
È
dalla metà degli anni 2000 che il pianista di Merano riappare intensamente nei
pensieri della critica e degli aficionados,
con un primo posto nel 2005, tra l’altro in ex aequo con Gianluca Petrella e
successivamente nel 2008,
in ex aequo con Enrico Pieranunzi.
Gli ultimi tre Top
Jazz, dal 2011 ad oggi, vedono di nuovo in primo piano Franco D’Andrea, ed
anche il suo profilo è stato meglio analizzato, con la pubblicazione di
“Profumo di Swing”, la biografia realizzata nel 2007 da Francesco Carta per i
Quaderni di Siena Jazz e col documentario “Jazz Pianist”, realizzato da Andreas
Pichler nel 2006 per i tipi della Miramontefilm.
D’Andrea
è presente nella storia del jazz italiano fin dalla fine del 1959, quando si
stabilì a Bologna e fece la conoscenza di Amedeo Tommasi, passando poi per la
prima volta a Roma sotto l’ala creativa di Nunzio Rotondo, dal 1963 a quasi tutto il 1965,
e per un primo breve soggiorno milanese, che lo vide scritturato al club
Intra’s, in quartetto con Gianni Basso, Giorgio Azzolini e Gil Cuppini.
Ma
c’è un “secondo periodo romano” nella vita di Franco D’Andrea che è molto
interessante e poco conosciuto, che va dall’autunno del 1967 fino all’estate
del 1972, data in cui a Roma venne inciso Azimut,
primo disco dei Perigeo.
E c’è un librettino, presumibilmente del 1983 e da
anni non più disponibile, sul quale D’Andrea espresse al meglio l’estetica, la
poetica e gli incontri di quel periodo ad Arrigo Zoli, che s’intitola
“…fortissimamente jazz! Incontro con Franco D’Andrea”.
Ecco, quest’anno io non
ho votato Franco nel Top Jazz, e la condivisione di parte di questo ricercato
testo, corredata da uno dei suoi dischi più preziosi ed affascinanti, è il mio
riconoscimento alla sua grande Arte, alla sua impagabile modestia, alla sua
onestà intellettuale, all’operosità d’altri tempi ed alla sua creatività
infinita.
«AZ: Dopo
il primo periodo milanese, di ricerca quasi “in vitro”, nell’autunno del ’67 ti
trasferisci a Roma con la famiglia che ora comprende, oltre a Marta, l’appena
nato Stefano. Come mai questo ritorno a Roma?
FDA:
Fin dall’anno precedente l’amico Franco Tonani si era spostato a Roma e mi
teneva regolarmente informato di quanto avveniva nella capitale oltre ad
invitarmi spesso a raggiungerlo. Da parte mia ero incerto sul da farsi per il
fatto che Marta continuava a lavorare e le prospettive che mi venivano offerte
sembravano allettanti sul piano artistico, ma non ugualmente su quello
strettamente economico. Alla fine la piattezza dell’elettroencefalogramma della
situazione milanese mi convinse a rompere gli ultimi indugi e partii.
A
Roma, ricordo nitidamente, mi trovai immerso in una situazione ed un’atmosfera
a dir poco eccitanti. Musicalmente tutto era ritenuto possibile: era
assolutamente vietato avere pregiudiziali ed inibizioni. In uno stesso concerto
si potevano ascoltare formazioni Dixieland e gruppi free. Questi ultimi
potevano comprendere musicisti autodidatti, jazzisti, “colti contemporanei” in
uno spirito di coesistenza del tutto pacifica. L’approccio alla musica,
naturalmente free, se si fa eccezione per il Gruppo Romano Free Jazz (Schiano,
Schiaffini, Marcello Melis, Franco Pecori poi Paul Goldfield), era di tipo
spiccatamente spontaneistico, una sorta di jam session free. Tra l’latro vigeva
l’abitudine di riunirsi di preferenza nella villa dell’architetto Fabio De
Sanctis dove oltre ai romani erano spesso presenti musicisti forestieri di
varia estrazione. Debbo confessare che quasi sempre mi annoiavo ritenendo ormai
superata la fase dello spontaneismo. Non mancarono comunque serate o momenti
degni d’interesse e di citazione quali gli interventi di Don Moyè, allora a noi
sconosciuto, di Roberto Laneri, da cui ascoltai per la prima volta i “frullati”
col clarinetto, di John Coppola che, sulla scia di Cage, preparava i pianoforti
e suonava sulla cordiera in maniera eccellente, di Enzo Gardenghi ossia di un
misconosciuto saxofonista veneziano che fu protagonista di un episodio
illuminante: in una situazione canonica in cui tutti, lui compreso, si
muovevano in varie tonalità, vari ritmi, etc, piazzò una nota bassa stentorea e
restando poi su questa nota a mo’ di pedale, determinando un contrasto
veramente suggestivo tra il sax che rimaneva fermo mentre tutto si muoveva
all’intorno (a posteriori mi viene alla mente una considerazione che credo
attribuibile a Pierre Boulez secondo la quale quando tutto si muove, quando
tutti i parametri vengono variati si corre il rischio che il risultato sia la
stasi, la piattezza assoluta. Ebbene Gardenghi aveva fornito col suo pedale
l’elemento di fissità rispetto al quale il movimento veniva compreso e
giustificato).
AZ:
In conclusione come consideri oggi questo
periodo?
FDA:
Sicuramente molto positivo, stimolante e fecondo, specie a livello psicologico
per il senso di ampia libertà, addirittura per la spregiudicatezza con cui
venivano combinati materiali e situazioni fino ad allora ritenuti
inaccostabili.
AZ:
È proprio in questo periodo e in questa
atmosfera che nasce il MAT, ovvero il Modern Art Trio. Perché e con quale
stella polare nacque?
FDA:
il MAT nacque per volontà mia e di Tonani. Entrambi avevamo portato avanti i
nostri studi e quindi precisato i nostri obiettivi musicali per cui sentivamo
un forte desiderio di riprendere il progetto di un trio. Dopo l’aperitivo
milanese sentivamo l’esigenza di un lauto pranzo romano.
La
stella polare, così su due piedi, poteva essere individuata nel tentativo di
razionalizzare la free music. E questo bisogno di ordinare, di dare una forma a
quel magma sonoro che era il free jazz era da noi fortemente avvertito anche
per il fascino che proveniva dalla consapevolezza di inoltrarci in un
territorio pressoché inesplorato. Infatti la maggioranza delle proposte che
arrivavano dagli Stati Uniti batteva un’altra strada, la strada della
contestazione, del coinvolgimento emozionale, della ricerca dell’energia intesa
come fine a se stessa. I dischi ESP, l’ultimo Coltrane, Shepp (ricordo lo
“storico” concerto di Lecco nel 1967 dove fece grande scalpore e scandalo il
suo modo di “vomitare” musica e/o rumori sul pubblico) si muovevano prevalentemente
in questa direzione. Qualche eccezione c’era, come ad esempio i citati New York Art Quartet e On This Night e, a mio parere, su di un
livello inferiore Unit Structures di
Taylor a causa del suo culto della velocità che concedeva pochissimi spazi, ma
erano appunto delle eccezioni. Il tentativo consapevole di dare una vera forma
fu compiuto successivamente ad opera soprattutto di Anthony Braxton ed in
maniera, a mio personale giudizio, discutibile per il fatto che il free
americano fu praticamente europeizzato in una chiave eccessivamente colta che
finì per sterilizzarlo.
AZ:
Non hai citato Ornette?
FDA:
Ornette, che a giusto titolo, poteva essere considerato il padre della free
music era rimasto in una situazione paradossalmente più appartata e tradizionale,
tutto sommato sul tempo, fortemente bluesy e con un feeling che tendeva al
lirismo piuttosto che all’incazzatura.
AZ:
Col ’68 la contestazione arrivò pure in
Italia e quanto hai riferito in precedenza sulla situazione romana lo dimostra
apertamente. Il MAT ne fu forse indenne?
FDA:
Decisamente no, il ’68 entrò anche nella nostra musica, ma per linee interne
nel senso che la contestazione non veniva evidenziata programmaticamente, e
quindi scopertamente, bensì era avvertibile nell’energia e nell’intensità
emotiva delle nostre esecuzioni.
AZ:
Sul piano strettamente musicale quale
poteva essere considerata la vostra novità più significativa?
FDA:
Senza dubbio la serialità che tra l’altro gli americani non hanno praticamente
mai accettato fino in fondo nemmeno nell’ambito colto.
AZ:
Per quale ragione?
FDA:
Forse perché ritenuta troppo poco “commerciale”. Ricordo infatti un’intervista
a Don Ellis nella quale la serialità era considerata monotona, con un solo
colore per cui veniva preferito il politonalismo.
AZ:
Circa la serialità non era forse apparsa
già fino dal 1957 in
Tempo e Relazione op.12 dell’indigeno
Giorgio Gaslini?
FDA:
Si, sia pure in una prospettiva diversa se non addirittura opposta. Noi
partivamo in verità dal jazz (personalmente non avevo fatto altro come
musicista) per recuperare eventualmente alcuni elementi europei mentre Gaslini,
al contrario partiva dal colto europeo, almeno in quel disco, per approdare al
jazz con la conseguenza che i colori, la pronuncia strumentale, etc risultavano
chiaramente europei.
AZ:
Riprendendo il filo del discorso relativo
al MAT, cosa puoi dirmi?
FDA:
Intanto che il progetto tendeva a combinare il jazz o, meglio, la sensibilità
jazzistica con la forma europea, specie l’atonalismo seriale, unitamente ad un
polistrumentismo piuttosto spinto. Circa la storia di questo gruppo ricordo che
il debutto ebbe luogo a Roma nel dicembre 1967 con Marcello Melis al
contrabbasso. Nei primi mesi i risultati furono ovviamente imperfetti: il
lavoro del contrabbasso era solamente abbozzato (Melis era libero di esprimersi
con la sua cavata imperiosa, con il suo senso del free drammatico ed
incalzante) mentre sul piano del polistrumentismo, io e Tonani eravamo
duramente impegnati nell’acquisire una tecnica sufficiente sugli strumenti
aggiuntivi (il soprano per me, la tromba ed il flauto a coulisse per Franco).
Ma nel luglio del 1968 al Festival di Venezia cui partecipammo, il grado di
strutturazione aveva già raggiunto un buon livello. Poi dopo qualche
avvicendamento tra Melis e Giovanni Tommaso l’organico pervenne al suo assetto
definitivo nella primavera del 1969 con Bruno Tommaso (cugino di Giovanni).
L’inserimento di Bruno fu molto importante possedendo egli le caratteristiche
peculiari per la realizzazione del nostro progetto: una notevole capacità di
applicazione e di analisi, una intonazione sicurissima (qualità preziosa in un
contesto atonale), una eccellente qualità di lettura, una buona duttilità, una
consolidata esperienza free. In particolare io e Franco costituivamo un vero e
proprio asse e Bruno aveva il compito di mediare le varie situazioni politonali
o polimodali che io creavo sulla tastiera oppure di riempire gli spazi durante
le sequenze di dialogo tra i fiati. La base strutturale era ricavata dai
diagrammi melodici dei temi, ora già in partenza concepiti per questo scopo,
con la tecnica precedentemente illustrata. Stavolta però anche il contrabbasso
utilizzava i nuclei melodici trovati con la possibilità di permutarli e
combinarli in piena libertà. Per quanto riguarda Tonani devo riconoscere che fu
sua l’idea, rivelatasi vincente, del polistrumentismo (da parte mia nutrivo
dubbi sulla nostra adeguatezza strumentistica); batteristicamente poi era
assolutamente personale, dotato di una grande intelligenza musicale ed inoltre,
collaborando in quegli anni contemporaneamente con Gaslini e con Romano
Mussolini, riusciva con naturalezza ad esprimere il feeling e lo swing del jazz
classico ed insieme il senso spiccato della forma della musica colta; sul piano
compositivo infine aveva una buona visione d’assieme che gli permetteva di
concepire forme lunghe, estese, ad esempio suites,
di cui sapeva bene affiancare i colori dei vari movimenti.
Per
concludere non vorrei tralasciare di dire che si era determinato un notevole
affiatamento come naturale conseguenza di un vero lavoro di gruppo (si
discuteva di tutto con grande passione e si provava spesso sia in duo che in
trio).
AZ:
Nella vostra musica prevaleva la parte
scritta o quella improvvisata?
FDA:
Direi che prevaleva la parte improvvisata anche se questa, in definitiva, era
in gran parte guidata dai nuclei o da altre strutture progettate in anticipo.
In altri termini esisteva una scrittura a livello progettuale e non per esteso
tipo quella che verrà impiegata da Braxton.
AZ:
Nell’aprile del 1970 registrate Modern
Art Trio. Lo reputi un disco rappresentativo?
FDA:
Complessivamente direi di sì. Comprendeva qualche sequenza non perfettamente
razionalizzata compensata però da un entusiasmo e da uno spirito che andranno
successivamente sempre più diminuendo.
AZ:
Puoi riassumere brevemente le
caratteristiche dei vari brani?
FDA:
Volentieri. Il disco conteneva sei titoli: It
ain’t necessarily so di Gershwin, due suites
composte da me e Tonani (Un posto
all’ombra e Beatwiz) e tre mie
composizioni (URW, Frammento, Echi). Tendenzialmente
le suites vedevano un ampio impiego
del polistrumentismo per evidenti ragioni di diversificazione dei vari
movimenti mentre gli altri brani erano eseguiti in trio nella versione canonica
piano-contrabbasso-batteria. In particolare, Un posto all’ombra era così concepito: il I° movimento eseguito dal
piano elettrico, contrabbasso con arco, batteria mimava una situazione free di
tipo estemporaneo; il II° era incentrato su di un dialogo soprano-tromba al di
sopra di uno spazio vuoto che veniva progressivamente riempito dal
contrabbasso; il III°, in trio, tendeva a recuperare la tematica modale per cui
era basato su di un pedale di do
minore e rinviava inoltre ad un tempo rock sia pure in maniera implicita; il
IV° era di nuovo un dialogo di tipo free tra il soprano e la tromba, sviluppato
in modo più serrato ed incalzante rispetto a quello del I° e con una presenza
più aggressiva del contrabbasso con l’arco. Beatwiz
prevedeva tre movimenti di cui: il I° veniva preso a tempo medio veloce e, dopo
l’esposizione del tema, si risolveva con un solo di piano che vedeva l’impiego
della tecnica dei nuclei melodici; il II° vedeva l’esposizione del tema da
parte del contrabbasso con l’arco su cui si inserivano in contrappunto il
flauto a coulisse ed il piano con effetti sulla cordiera; il III° riproponeva
la situazione del I° con il sax soprano in sostituzione del piano. URW lo ricordo con affetto poiché, più
degli altri, esprimeva il grado di affiatamento raggiunto; più che al free si
riallacciava alla poliritmia della ritmica divisiana degli anni ’60 ed alle
progressioni ritmiche di Charles Mingus; il tempo era sempre avvertibile;
poteva dare l’impressione di un brano dedicato al piano essendo questo sempre
presente, ma in realtà era pienamente sottoposto alla logica di un trio per il
fatto che sotto la linea del piano le situazioni erano in costante movimento
con continui cambiamenti di ritmo alla maniera vista in We mean the blues. In Echi
invece la situazione era maggiormente sbilanciata verso il non tempo nel senso
di una tendenza alla frammentazione con impiego della serialità politonale. Frammento si sviluppava su di un giro
armonico ponendosi in questo modo al di fuori del discorso generale, ma proprio
per questa diversità ne rappresentava un certo arricchimento. It ain’t necessarily so pur essendo uno
standard, fu sottoposto al solito trattamento dei nuclei melodici; il tema
principale era stato interpretato come bi modale (sol dorico e mi dorico),
ma nella parte del contrabbasso veniva evidenziata la nota comune sol con la tendenza ad utilizzare i
nuclei con una marcata attrazione tonale verso il sol che diventava in questa maniera una sorta di pedale;
nell’inciso il movimento armonico era stato sintetizzato per il contrabbasso
con l’impiego di due scale successive comprendenti le note comuni delle varie
scale relative agli accordi della struttura originaria del brano; il tempo era
duplice: velocissimo nel tema principale e moderato nell’inciso peraltro con un
sapore fortemente poliritmico.
AZ:
Quando e perché si esaurì il MAT?
FDA:
Gli ultimi concerti risalgono al 1972. le ragioni dell’esaurimento di questa
formazione furono molteplici: a livello squisitamente personale, a causa della
mia tendenza spiccata all’iperstrutturazione del materiale mi ero cacciato in
una sorta di vicolo cieco; a livello invece di gruppo, avevamo raggiunto un
perfezionismo formale tale da rendere sempre più arduo lo sfuggire al
manierismo; inoltre, a causa della difficoltà del progetto ad essere recepito
dal pubblico, l’attività concertistica fu tutto sommato piuttosto limitata,
ognuno di noi aveva poi iniziato ad accarezzare altri progetti; infine si
arrivò, credo, ad un certo grado di saturazione dell’atonalismo con il
conseguente apparire di un sentimento di nostalgia verso il tonale».
*********************************
Credits:
Label:
Vedette
Catalog#:
VSM 38545
Format: LP
Country: Italy
Recorded at SOUNDWORKSHOP
studio,
Franco D'Andrea (piano, el. piano, soprano sax),
Franco Tonani (drums, trumpet, songwhistle),
Bruno Tommaso (bass)
2nd Print, 1978
Label: Vedette
Catalog#: VPA 8434
3rd Print, 2008
Label: Dejavu Rec
Catalog#: DJV 2000041
Tracklist :
1) URW - 7:30
2) Frammento - 4:30
3)
Un Posto all'Ombra - 12:00
1)
It Ain't Necessarily So - 9:40
2)
Echi - 5:25
3)
Beatwitz - 8:30
*********
1935 - 1988
Ennesima chicca, grazie, disco molto bello, e poi D'Andrea al sax soprano mancava ai miei ascolti... Molto interessante anche lo stralcio di intervista, tecnico ma non palloso. Quanto all'ennesimo riconoscimento top, il musicista ha una storia davvero enorme, indiscutibile, ma gli ultimi due dischi per il gallo rojo non mi hanno fatto impazzire, in verità
RispondiEliminavery interesting, thanks much, but it gives error when i try to download Side B, any chance someone could help me with that?
RispondiEliminaIgor
success! after several attempts it's downloaded! really like Bruno Tommaso's playing, thanks again and all the best!
RispondiEliminaIgor
Grazie, ti seguo da molto tempo e grazie a te ho sentito molte rarità. Ora vorrei comtrinuire anche io, anche se sono all'inizio.
RispondiEliminaChi volesse può guardare http://jazzdallostivale.blogspot.it/ Ciao e grazie ancora, Roberto
Hi,
RispondiEliminaCapisco che non è il caso di fare richieste a una pagina internet seria e competente come la tua, però sono anni che cerco
"Segnali" di Giorgio Gaslini (Durium) e Katcharpari
di Enrico Rava (Basf), Potresti postarli? Naturalmente se li possiedi o puoi averli da qualche amico!
Grazie anticipatamente e ancora complimenti per questo tuo
immenso lavoro.
thegreek
ciao thegreek.
Eliminaper Segnali posso aiutarti io.
ho un file FLAC in traccia unica probabilmente copiato da LP in DAT e poi rippato su computer.
fammi un fischio.
rob
Katcharpari è disponibile, ora!
EliminaNaturalmente un immenso GRAZIE!
Eliminathegreek
Una volta esistevano negozi di dischi che diventavano ritrovi per appassionati e curiosi. Ci si scambiavano opinioni e si scoprivano gradualmente suoni e artisti. Chi oggi prosegue quella meritoria opera di divulgazione senza nemmeno il vantaggio del guadagno derivante dal commercio fa' opera meritoria.Per favore, trova il tempo di ripostare le cose che non sono più fruibili a causa di una cieca censura. Sono cose di valore culturale altissimo, sempre più rare che rischiano di scomparire del tutto travolte dal degrado e dal pattume musicale imperante. Per favore, rimetti in funzione i link dei vecchi post! GRAZIE!!
RispondiEliminaun buongiorno al creatore di questo IMMENSO blog.
RispondiEliminascoperto solo oggi alla tenera età di 52 anni passati ma con la voglia di scoprire il jazz italiano dopo 35 anni passati ad ascoltare altro(comunque sono sempre stato poco modaiolo ma da rocchettaro progressivo in tutte le sue sfaccettature sono passato al jazz per poi passare alla classica contemporanea per tornare al jazz scoprendo un modo nuovo al di qua dell'oceano e al di là di tutta l'asia, due luoghi che avevo sempre e da sempre snobbato forse perchè i primi ascolti non erano quelli "giusti" o, più probabile, perchè non ero ancora pronto e ricettivo).
un grande GRAZIE per dare la possibilità a quelli che come me non hanno l'economia di poter acquistare e quindi di poter godere nell'ascoltare e toccare con mano queste GEMME.
buon week end from Hungary!
rob
Ma grazie rob, per il passaggio e per le tue parole...
EliminaCome vedi, la passione non ha età!!!
stay tuned.
Dear Gretels,
RispondiEliminaSarebbe molto bello avere il file di "Segali" (anche se unico).
Mi dici come contattarti?
Grazie ancora a te e al fantastico creatore di queste pagine dedicate al jazz italiano
thegreek
prova a cliccare sul mio avatar(una macchina fotografica) così puoi contattarmi in privato.
Eliminarob
thegreek, fatti vivo con una e-mail.
Eliminarob
thegreek, io aspetto sempre che mi contatti.
RispondiEliminarob
Thank you!
RispondiEliminaHi, would there be any chance you could add fresh links for this please, it would be greatly appreciated thanks
RispondiElimina