lunedì 22 aprile 2013

L’Arte in Questione, ovvero per riprendere, certamente non per concludere, ma nemmeno per lasciar cadere nel vuoto ideologico, la questione del download _ The Unrepentant Ones by Mario Schiano, Mazzon, Schiaffini, Geremia, Tommaso, Rusconi _ 1986


Una delle cose che ho imparato in fretta nel mio lavoro, da quando le e-mail sono diventate lo strumento principe della comunicazione, al pari degli sms nei rapporti personali mediati dalla tecnologia, è stato di lasciar decantare le risposte.


Nel senso che, a differenza della diretta comunicazione interpersonale, che dona allo strumento verbale una percentuale minima di significante, forte dell’empatia e della comunicazione non verbale che tutto il corpo emana, le risposte scritte a temi delicati o ad annosi problemi sgorgate dallo scrivere torrenziale ed inviate simultaneamente attraverso un’infinitesimale click, spesso offuscano il dialogo attraverso nebbie interpretative ed ombre di fredde sentenze.


Per questo torno solo oggi a Reflections on Download, quel post che ha raccolto diversi commenti e, soprattutto, un utile confronto tra alcuni dei frequentatori di questo stupido blog.

Senza cadere nella retorica, ringrazio tutti quelli che hanno dedicato un poco del loro tempo al tema, e spero che un giorno questo verrà ripreso ed affrontato su platee più ampie, come le pagine di una storica rivista o in qualche tavola rotonda di un lungimirante festival, perché si può essere d’accordo o meno sul download, ma non si può eludere quello che questa modalità, una volta rivoluzionaria, ha portato alla storia della fruizione della musica.


Diversi gli spunti che mi hanno aperto a nuove considerazioni:
primo fra tutti quello lanciato da Alessandro, riportando un’interessante articolo di Chris Cutler, musicista e produttore indipendente, che ha dato la stura ad un dibattito sviluppatosi su The Wire. Su questo c’è da dire che se può essere vero che il download, non stabilito dall’artista stesso, potrebbe minare la diversità musicale e mettere a repentaglio la sostenibilità delle piccole etichette discografiche, è anche vero che i nuovi approcci produttivi, così come quelli promozionali forti dei social network, permettono la raccolta di fondi in fase di pre-produzione attraverso il crowdfunding, come per la già citata esperienza de El Gallo Rojo, saltando a piedi pari l’ansia da prestazione, la contrattazione delle royalties (da 5 a 10% sulle vendite) e tutta la difficile filiera della distribuzione del prodotto, creando un rapporto di fidelizzazione diretto tra l’artista e gli appassionati ed un rientro garantito dell’investimento a capo del progetto. 
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E questo non riguarda solo le etichette indipendenti; nuovi modi d’intendere il mercato discografico ci sono stati offerti già diversi anni fa anche dai Radiohead, con la condivisione/pubblicazione dell’album In Rainbows, scaricabile direttamente dal sito ufficiale gratuitamente, o con una libera donazione, al quale è seguito la pubblicazione fisica dello stesso in vinile, in un Deluxe Discbox che conteneva anche  extra tracks, fotografie ed altro.



In ogni caso, nonostante i buoni spunti di ragionamento lanciati dallo scritto di Cutler, mi trovo più in sintonia con un altro Chris quando dice sul suo blog che una piccola band "non ha niente da perdere a cedere gratis la sua musica, niente salvo l'opportunità di vincolarsi a un'azienda, ferma a un modo di far soldi con la musica buono giusto per il secolo scorso. "


Poi è stato abbozzato il discorso sull’etica, analizzandolo però rispetto ai risultati dell’azione, non riguardo alle intenzioni che muovono alla stessa.
Mi spiego:
se un giorno, per salvare un uomo dalle fiamme io mi precipitassi in casa sua, rischiando di bruciare vivo, e poi quell’uomo si rivelasse un individuo spregevole o, addirittura, un pluriomicida… io avrei sbagliato a tentare di salvarlo?


E questo discorso non può lasciarsi confondere nemmeno dal “valore” dell’azione, cioè noi diciamo che il download è cosa buona e giusta, che è utile per cose introvabili e talvolta indispensabili per la conoscenza, ma il gesto resta ugualmente soggetto ad una legge, del 1941, che non dovrebbe ammettere eccezioni, ad esempio:
se io venissi fermato da una pattuglia proprio dopo aver terminato un graffito sul muro, credete che gli agenti deciderebbero il da farsi a seconda della bellezza, o meno, del mio gesto artistico o mi affibbierebbero a prescindere l’art. 639 per deturpamento e imbrattamento di cose altrui?


Per finire, il tema più curioso è stato quello della proprietà intellettuale, o della tutela delle opere dell’ingegno, affrontato sia da GMG che da LC, che ha citato l’illuminatissimo editore dell’Adelphi. Devo dire che l’argomento è interessante, ma solo se in questa sede vogliamo cambiare prospettiva e ridimensionare la tutela della proprietà patrimoniale rispetto a quella dell’intelletto (oppure cambiamo nome al tema, che diventa tutela del salario artistico e via).


Cioè, il Peterson che acquista l’etica a forfait e la rivende a 20€ a cd è ok? E quei proventi son tornati indietro agli artisti o si sono fermati tra Londra e Porto Empedocle? E tutti gli altri musicisti registrati per la HORO che, de facto, si vedono privati dei possibili proventi solo perché chi detiene le carte decide di non renderle disponibili, cosa pensano?

Sull’editoria il discorso sarebbe ancora più ampio, e forse questa non è la sede adatta, basta ricordare che non si sa quanti scrittori in causa ci sono in giro.



Sicuramente, ci sarebbe un discorso di categoria da fare e, oggettivamente, bisognerebbe tentare di ricostituire una nuova tutela del lavoro tutto, ma ci sarebbe anche un concetto più ampio che tocca la possibilità di godere del bene artistico da parte della maggioranza, l’imposizione degli abbassamenti dei prezzi da parte degli artisti stessi, la condivisione come fondamentale elemento culturale ed educativo, le leggi che tutelano la smania di profitto che governa nell’industria discografica, che invece non ha tutelato le “sue” opere culturali (per questo molti dischi sono rari ed introvabili) ma che si è battuta senza tregua per difendere i suoi meschini interessi, solo i suoi, né quelli degli acquirenti e nemmeno quelli dei musicisti.



«Erano anni molto difficili, soprattutto di grandi pentimenti. Dopo un lungo periodo di riflessione, grazie all’iniziativa di Pasquale Santoli, titolare di quella famosa rubrica che si chiamava “Un Certo Discorso” e grazie anche al direttore di Rai Radio Tre, l’indimenticabile Enzo Forcella, ci fu offerta l’occasione di rivederci tutti, quelli che – grosso modo – erano rimasti tali e quali: Bruno Tommaso, Giancarlo Schiaffini, Renato Geremia, Guido Mazzon […]
Ne venne fuori un bel long playing, promosso da Radio Tre, The Unrepentant Ones, stampato dalla Fonit Cetra, azienda discografica pubblica, consociata Rai. Nel ’90 la casa ristampò il disco in cd, probabilmente perché obbligata a farlo per statuto o cose del genere; un’operazione condotta malissimo, senza alcuna pubblicità, e non ricordo più nemmeno come ne venni a conoscenza. Fatto sta che quando contattai la Cetra per chiedere se era possibile acquistare copie del cd, mi dissero “avrebbe dovuto chiamarci il mese scorso, le abbiam trinciate tutte…”»


Le opere dell’ingegno, invece di essere utilizzate come strumenti di fratellanza, suonate come diffusori di sensibilità, mostrate come immagini di confronto, sono state manipolate per anni dall’industria discografica come armi di guerra, sono state utilizzate dalle major a supporto di una strategia totalizzante, che ha sempre avuto come obiettivo primario il generare profitto. 

Ora che è cambiato il terreno di battaglia, non ci si può appigliare all’etica… poi, certo, ognuno sceglie i propri miti e riporta le proprie citazioni, è legittimo, basta esserne consapevoli.





«L'arte della guerra è il testo più sopravvaluto e sottovalutato dei nostri tempi.
Sopravvalutato perché lo si carica di aspettative taumaturgiche, salvifiche, provvidenziali: a sentire certi apologeti, basterebbe averne in saccoccia una copia per rinascere grandi strateghi. Somigliare all'acqua etc. Sottovalutato perché è un libro da cui poca gente si è dimostrata in grado di apprendere qualcosa.

Se L'arte della guerra fosse davvero la lettura più frequente, amata e ponderata da manager, capi d'impresa, dirigenti di multinazionali etc., costoro si accorgerebbero dei problemi molto prima del loro divenire "emergenze" e del loro sfociare in tracolli, disastri finanziari, crisi, esplosioni di "bolle".


Tra i tanti esempi di battaglie inutili e disgraziate – ingaggiate nelle peggiori condizioni e scegliendo le strategie più controproducenti – combattute dallo stesso manageriato globale che ama citare Sun Tzu, spicca la “lotta alla pirateria musicale”, che spesso è stata una guerra contro internet tout court e, soprattutto, contro il pubblico. È ormai parere diffuso che tale offensiva – in corso da quasi un decennio – si stia concludendo col suicidio dell’industria discografica.

Anziché fluire da monte a valle, aprirsi, innovare, intercettare in modo creativo prassi che si andavano diffondendo a macchia d’olio (la masterizzazione domestica di cd, lo scambio di file nelle reti peer-to-peer), i discografici hanno scelto la battaglia in campo aperto… contro i propri clienti. Repressione, minacce, denunce, tecnologie anti-copia, tasse su cd vergini e masterizzatori, lobbying per ottenere inasprimenti legislativi; i ras del disco hanno fatto il possibile per attrarre l’odio del pubblico, del consumatore stesso di musica. Oggi sono visti come villains, gabellieri, parassiti, le loro prese diposizione sono accolte come l’arrivo dello sceriffo di Nottingham alla festa di compleanno dei coniglietti.


Cavalcando l’onda”, rinunciando a parte dei profitti facili e a breve termine garantiti fin lì dal monopolio delle tecnologie, le major della musica avrebbero certamente limitato i danni, e forse a quest’ora avrebbero quadrato il cerchio di una “riconversione”. La vittoria perfetta si ottiene evitando lo scontro. Soprattutto se il nemico è elusivo, in quantificabile, abile nell’usare stratagemmi, e se si muove a proprio agio in un territorio ancora non mappato e in costante mutamento. E a maggior ragione se quel “nemico”, in realtà, è il soggetto da cui dipendi e che ti tiene in vita. Che senso ha minacciare e querelare una persona per poi, dopo un istante, blandirla affinchè compri il tuo prodotto? È più plausibile che il minacciato si convinca della necessità di boicottarti, o addirittura sabotarti.


Gli spazi che le major non hanno occupato sono oggi colonizzati da altri soggetti, come MySpace ed altri social network, e la gente continua a scambiarsi musica in rete. Il cd è considerato un supporto moribondo, il consumo di musica è sempre meno incentrato sull’acquisto di un prodotto discografico, e sempre più sull’interazione tra fruizione in rete ed esecuzioni dal vivo. Interazione su cui le major non hanno investito, preferendo la repressione.
Eppure, che quella strategia fosse sbagliata e autolesionista era chiaro dal momento in cui le major fecero chiudere il primo Napster (2000). Gli osservatori più attenti lo fecero notare subito e senza indugi.

Il fatto che quei manager si siano lanciati a capofitto in un’impresa tanto squinternata e infausta è la riprova che Sunzi non l’hanno letto, e se l’hanno letto non l’hanno capito.


Per comprendere cosa non hanno capito, e quali lezioni si possano invece trarre da questo piccolo grande trattato, non c'è di meglio che leggerlo. Leggerlo, e cercare di applicarlo noialtri, nella lotta quotidiana contro la miopia che ci porta al tracollo. 
Gli errori fatti dall'industria discografica sono solo un piccolo esempio, un apologo, una storiella. Su una scala più vasta, la lotta per tenere in piedi - contro ogni evidenza e senso del futuro - l'intera baracca petrolivora si preannuncia ben più velleitaria e demenziale.


Sunzi dice: "L'ira può tramutarsi in gioia, e l'indignazione in piacere; uno stato non può tuttavia risorgere dopo essere stato distrutto, né può un uomo rivivere dopo essere morto."
Un'ovvietà?
Chiedetelo a certa gente, che pare ben lungi dal rendersene conto.»



Wu Ming – introduzione a “L’Arte della Guerra” di Sun Tzu, - Newton Compton editori 2008



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Art by Cy Twombly
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Credits:

The Unrepentant Ones

Label: Fonit Cetra
Italian Jazz Club
Catalog# IJC 005
Format: LP
Country: Italy

Recorded at
“Un Certo Discorso”
Sala M del Centro di Produzione Radiofonico della Rai
Rome
February 17, 1986


Guido Mazzon : trumpet; clarinet in B/2; tp and piano in B/3;
Giancarlo Schiaffini : trombone in B/1 and B/3; tuba in A/1, A/3, B/2, B/4, B/5; trne and tuba in A/2, A/4;
Mario Schiano : alto sax; voice in A/1, B/1;
Renato Geremia : voice in A/1; soprano sax and violin in A/2; 
violin in A/3, B/2, B/4; tenor sax in A/4; piano in B/1; soprano sax in B/3; flute in B/5;
Bruno Tommaso : bass;
Toni Rusconi : drums in A/1, A/3, A/4, B/1, B/3, B/5; 
drums and percussion in A/2; percussion in B/2

In B/4 - Skies Off - only violin, alto sax and tuba



Tracklist:


1. Antenne Justine - 2:48
2. Feel Better - 8:26
3. Tout Doucement à Marghera - 2:00
4. Lottuso (Softwar) - 4:12




1. L'Arte in Questione - 4:53
2. Virtù Appassite - 4:24
3. Ich Mag F.M. - 4:04
4. Skies Off - 1:03
5. Armi e Bagagli - 3:56


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N.B.
Questo disco, in versione CD, era già stato pubblicato tempo fa dall’amico LYM sull’indispensabile Inconstant Sol. Mi scuso per il mirror, ma visto il tema in questione, era il miglior binomio possibile.




[1] Mario Schiano in “Un Cielo di Stelle” di Pierpaolo Faggiano – Manifestolibri 2003


4 commenti:

  1. L'argomento è veramente attuale, ormai non solo più in musica (che a suo tempo spalancò le porte della riflessione) ma anche in letteratura, ormai.
    Sono innegabili le scelte sbagliate fatte per anni da grandi case discografiche e agenzie di tutela dei diritti (SIAE RIIA...) nel dare la caccia alle streghe demonizzando tecnologia e utilizzatori della stessa. Il mondo cambia e la fruizione della musica cambia con esso.
    Spotify è sempre acceso sul mio PC: è legale? i proventi (minimi) arrivano davvero a chi detiene la propirtà intellettuale, arrivano agli artisti, a chi li mette sotto contratto? A chi?
    Non ho elementi per rispondere. Però lo uso.
    Certo che l'uso che si fa di un'opera dell'ingegno dovrebbe essere stabilito solo dalla persona il cui ingegno l'ha prodotta... Non credo sia così, anche se internet certo facilita l'autoproduzione (che non è sempre autoproduzione).
    Io scrittore sottoscrivo un contratto con un editore che spesso ha molto più potere contrattuale di me; e le mia opera è nelle sue mani.
    Non è il massimo, certo.
    Però è vero anche che io blogger che scelgo di "condividere" musica o opere non mie, permettendone il download compio un arbitrio, arrogandomi diritti che non sono miei. Magari anche facendo del bene all'artista, più o meno direttamente. Però credo comunque si commetta un arbitrio; che non è necessariamente un reato.

    Grazie x questo post.

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  2. A me sembra che di fondo ci siano due grossi (e vecchi) luoghi comuni, per non dire pregiudizi: il primo è che il musicista non sia un vero lavoro (forse per l'idea che chi lo fa si diverta o qualcosa del genere) e quindi le sue ore di lavoro non meritino di essere pagate, al contrario di quelle di un idraulico, di un professore di estetica, di un benzinaio e via dicendo, a meno che non faccia quel lavoro su un palco (e qui entriamo nel secondo pregiudizio o luogo comune, tipico – questo sì – di chi è fermo «a un modo di far soldi con la musica buono giusto per il secolo scorso»). La musica dal vivo meriterebbe infatti – chissà perché – quella retribuzione di cui non sono degne le costosissime ore trascorse in una sala d'incisione.
    Tu dici che i «nuovi approcci produttivi, così come quelli promozionali forti dei social network, permettono la raccolta di fondi in fase di pre-produzione attraverso il crowdfunding» ma quel tipo di raccolta fondi esisteva ben prima di chiamarsi crowdfunding, ben prima che esistessero i social network e ben prima che esistesse internet: lo stesso Cutler lo praticava fin dal 1979, per pubblicare dischi dei propri gruppi o ristampare dischi introvabili (o inediti) di formazioni di cui non faceva parte.
    E non era l'unico: per esempio «The Cortege» di Mike Westbrook fu pubblicato grazie a un'analoga raccolta fondi, che consisteva nel chiedere a chi fosse interessato al disco di pagarlo prima ancora che venisse registrato per poi vederselo recapitare alla sua uscita (a volte anche un anno dopo) in edizione numerata e firmata, spesso con l'aggiunta di un bonus.
    La ReR di Cutler adotta tuttora quel metodo ma fa sempre più fatica a raccogliere i soldi sufficienti: la sottoscrizione per il cofanetto dei Cassiber è durata anni (e ancora il box non è uscito); quella per il cofanetto Points East non ha ancora raggiunto il traguardo e il triplo di registrazioni d'archivio di Jon Rose è uscito senza che la sottoscrizione fosse riusciuta a coprirne i costi.
    Il problema è che nessuno vuole più pagare per acquistare musica: le sigarette sì, l'aperitivo sì, lo smartphone sì, l'iPad sì ma non la musica.
    Di conseguenza l'incisione di cd e la professione di musicista diverranno appannaggio di ricchi, mafiosi e amici di assessori alla cultura, a meno di non ripiegare su cd dal vivo di formazioni preferibilmente ridotte all'osso su musica che preferibilmente non richieda prove, suonata da persone che si procurano di che vivere con altri lavori e dedicano quindi alla musica (e solamente a musica riproducibile dal vivo) i ritagli di tempo...
    Io faccio anche una considerazione "egoistica": se una musica mi piace, vorrei che il suo artefice potesse comporne e registrarne di più anche per il mio godimento. Se non fosse costretto a fare un altro lavoro, avrebbe più tempo da dedicare alla sua musica, che è per me fonte di piacere.
    Chi dice che «una piccola band non ha niente da perdere a cedere gratis la sua musica, niente salvo l'opportunità di vincolarsi a un'azienda, ferma a un modo di far soldi con la musica buono giusto per il secolo scorso» pensa evidentemente che registrare la musica non abbia costi e che l'unico modo di pubblicare cd sia vincolarsi a un'azienda, il che non è più vero almeno da quando Mingus e Roach fondarono la Debut (per non dire poi del punk, dell'Fmp, dell'Icp, dell'Orchestra ecc. ecc.): e poi chi sarebbe quello fermo «a un modo di far soldi con la musica buono giusto per il secolo scorso»?
    Alessandro

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  3. Un articolo che parla solo marginalmente di musica ma fornisce comunque dati molto interessanti («Are books dead, and can authors survive?» http://www.guardian.co.uk/books/2011/aug/22/are-books-dead-ewan-morrison) dice tra l'altro: «if the future of digital media is 'free', where does the money come from? While providers such as Yahoo and Google provide free content, at the same time, on every screen, they sell advertising space. The culture (books, films and music) that you find for free on the sites, is not the product, it has no monetary value. The real product Yahoo and Google are selling is something less tangible – it is you. Your profile and that of millions of other consumers are being sold to advertisers. Your hits and clicks make them money».

    «Il consumo di musica è sempre meno incentrato sull’acquisto di un prodotto discografico, e sempre più sull’interazione tra fruizione in rete ed esecuzioni dal vivo».
    Fruizione in rete di che cosa? Di registrazioni effettuate dove? Chi paga lo studio? Le spese di viaggio, vitto e alloggio dei musicisti che partecipano alla registrazione? I giorni di prove? L'affitto della sala in cui si svolgono? O le musiche «svincolate da aziende» che vale la pena sopravvivano sono solo improvvisazioni in duo e rock di due accordi in quattro quarti, registrati dal vivo come viene viene?
    E dove dovrebbero avvenire quelle «esecuzioni dal vivo»? In sale in cui tre quarti del pubblico chiacchiera (o telefona) urlando per sovrastare il volume degli altoparlanti, beve, mangia, chiama gli amici, si sposta in continuazione ecc. ecc.? Lì la musica è sottofondo: non si paga per ascoltarla (e infatti ai musicisti arrivano giusto due spiccioli) ma per usarla come «situazione» all'interno della quale incontrare amici e dedicarsi a svariate altre attività.

    «nuovi modi d’intendere il mercato discografico ci sono stati offerti già diversi anni fa anche dai Radiohead, con la condivisione/pubblicazione dell’album In Rainbows, scaricabile direttamente dal sito ufficiale gratuitamente, o con una libera donazione»
    I Radiohead se lo sono potuti permettere perché sono superstar mondiali.
    Chi invece ama musiche che non sono fatte da superstar, cosa potrà ascoltare in futuro?
    Una volta che si sarà scaricato tutti i dischi incisi fin quando registrare dischi non era un'attività a fondo perduto (non importa se avrebbe poi bisogno di dieci o cento vite per ascoltarli: la caccia è più interessante della preda, no?), quale musica scaricherà?
    Se le grandi case discografiche non avranno prospettive di profitto e le etichette autogestite neppure la speranza di recuperare i costi (che però continueranno a esistere: al contrario di quanto accade ai musicisti, nessuno pretende che tecnici del suono e gestori di sale d'incisione lavorino gratis in nome della libera circolazione della musica), nessuno registrerà più nulla: non cesseranno di esistere solamente i cd, i (neo)vinili falsamente analogici (perché ricavati da master comunque digitali)e i negozi che li vendono. Cesserà di esistere la musica registrata (tutta tranne quella di Dj Vattelapesca che in 5 minuti scrive e incide un canzone e la mette in rete, tutto con il suo pc). O meglio: esisteranno solamente registrazioni del passato, a qualità sempre più bassa perché tutte in mp3, visto che spariranno i cd.
    Che cosa circolerà nel peer to peer quando ci saranno solo consunte (e spesso posticce) vestigia del passato? App? Pezzi messi in rete in prima persona dopo NON averli registrati? O la "versione originale" di Gimme Some Lovin' che, come racconta Franco Fabbri, non è la versione orginale, giacché in digitale ne circola esclusivamente una successiva, con i coretti che rispondono a Winwood alla fine del chorus e l'organo "un po' spento, mixato dentro alla base invece che fuori"?
    Alessandro

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  4. Cutler in un messaggio di oggi al gruppo yahoo sulla sua etichetta autogestita:

    music, especially non-mainstream music just isn't deemed very important any more and anyway if you want it you can get for free; steve maclean just mailed me that he was checking up on Year of the Dragon [il suo ultimo disco, pubblicato da ReR] and found 5 sites offering free flac downloads (those are the ones he found) of the two he could see numbers for 15000 people had downloaded it. nice for the musc circulating, bad for the prospect of any new recordings since we have sold a few hundred and not yet recouped costs. i think this is is what's poisoning the tree. that's why fred [Frith] hasn't been able to release anything on his/our label for a couple of years, and it's why rer is releasing fewer cds; we have to be more careful; we still press things that we like but won't pay for themselves - paid for by other things that do sell - but fewer of them now, because bankrupt is worse than not being able to do everything we want.

    Alessandro

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