Certo,
per iniziare degnamente il nuovo anno, avrei dovuto parlare della mia
indiscutibile classifica Top - essenziale ai più -, o del perché le riviste di
Jazz chiudono senza lasciare traccia - e del percome quelle che rimangono
impilate ad imputridire, non puzzano ancora -. Avrei dovuto indagare sul
segreto di "restare originali" nonostante il successo, oppure avrei
dovuto fare luce sulle infinite vie del nuovo jazz, che nuovo non è - e nemmeno
jazz -, ma allora cos'è?!?
Invece
me ne sto qui, a raccogliere briciole di emozioni, a seguire mollichelle per
ritrovare la curiosità, ad ascoltare storie che non sapevo ed a ricordare cose
che non ricordavo di ricordare...
Insomma,
senza tante pippe vi assicuro che la musica uno può godersela alla grande.
E
sì, perché quale altro sentimento può nascere dalla relazione - per molti
impossibile, per altri platonica, per alcuni incestuosa - tra il piano rag di
Scott Joplin ed il trombone slide di Giancarlo Schiaffini?
Sapevate
che Fred Rose, cantautore di Nashville, e Jelly Roll Morton,
"inventore" del jazz di New Orleans in realtà sono fatti uno per
l'altro?
Avevate
mai raccolto la confidenza che la musica di Misha Mengelberg - figura storica
della scena improvvisativa contemporanea - andasse a braccetto con il mood
tipico delle colonne sonore della Commedia all'Italiana?
Inventare
nuovi ricordi non solo si può, sembrano dire The Freexielanders con il loro
«Looking Back, Playing Forward», pubblicato per la Rudi Records di
Massimo Iudicone, ma si deve, aggiungo io. E quando succede beh, è amore al
primo ascolto...
Ora
qualcuno penserà che è un altro modo per "buttarla in caciara", per confondere
l'alto con il basso, il qui con il là ed il pro con il quo, ma già i curricula dei musicisti dovrebbero
fare da garanti, dal momento che parliamo di una formazione che racchiude il
top degli improvvisatori contemporanei di almeno due generazioni - quantomeno
della scena romana - come Giancarlo Schiaffini, Eugenio Colombo, Gianfranco
Tedeschi, Alberto Popolla, Errico De Fabritiis e Francesco Lo Cascio tra gli
altri.
Anche
la scaletta segue un filo coerente, elaborando per lo più tracce che sono state
scritte e arrangiate negli anni ’30, o che sono nel DNA degli esecutori,
nonostante ai protagonisti piaccia raccontare che «tutto nasce dal ritrovamento
casuale di un pacco di partiture poco conosciute in vendita in un mercatino
delle pulci di una qualche città europea, rimaste impolverate per tutto questo
tempo ed oggi nel pieno di una crisi, che a detta di molti ricorda quella del
’29, hanno trovato un richiamo irresistibile».
Potrei
raccontarvi che il disco si apre con un intenso medley che racchiude "St.
James Infirmary" a "Gotta get to St. Joe" e ricordarvi che il
primo è un pezzo tradizionale di anonime origini (nonostante l'attribuzione a
Joe Primrose) reso famoso da Louis Armstrong nel 1928, mentre lo swingante
pezzo di Joe Bishop a me ha ricordato la forma impressa da Woody Herman e la
sua Orchestra nel '42. Ma non è questa la vera forza dell'incipit: musica
triste e musica allegra, Wasp music e Black music, tutto confluisce nel grande
fiume della musica bella.
Questa
la vera intro, per chi è capace di ascoltare.
Poi
si prosegue con uno dei pezzi più "vecchi", "On the Banks of the
Wabash" di Paul Dresser (1897), che sembra tagliato apposta per l'ottetto
che risuona come un corpo unico, screziato dal vibrafono di Lo Cascio,
attualizzato dalla voce scoppiettante di Eugenio Colombo e definitivamente
iconizzato dal solo di Errico De Fabritiis, ma anche questa sarebbe una formale
pista falsa, almeno finché non si scorgono le prime luci del terzo pezzo e la
nebbia della ragione comincia a diradarsi.
E
sì, perché il terzo pezzo è forse quello più spontaneamente naturale, oltreché
il più attuale, essendo "Peer’s Country Song" già presente nel
"Live in Soncino" della ICP Orchestra del 1979, primo incontro tra il
pianista ucraino/olandese con Schiaffini e Colombo (e con Rava, Trovesi e
Renato Geremia, tra gli altri). Citare Mengelberg, ed indirettamente
omaggiarlo, è un'affermazione d'intenti valida anzitutto per ribadire
l'importanza del collettivo ma anche una dichiarazione d'amore per questo
musicista unico.
Lo stesso amore che, senza remore o steccati mentali, viene
mostrato per Duke Ellington che, con "Come Sunday" e "Mood
Indigo", firma i due pezzi successivi, nell'arrangiamento prezioso di
Schiaffini. Cos'altro dire di questi due pezzi... forse la cosa più vera è
anche la più semplice e cioè che, fra tutti, sembrano quelli suonati
direttamente con il cuore, piuttosto che con altri muscoli.
In
mezzo c'è l’affascinante e profumato "Voci del Deserto" del misconosciuto Felice
Montagnini, che in realtà ha dato voce dietro le quinte ad una miriade di film
diretti da Nunzio Malasomma, Comencini, Mattoli e Steno, tra gli altri.
Atmosfera magica offerta dall'ensemble in call and response con il trombone di
Schiaffini che, grazie ad un groove portante impartito dal contrabbasso di
Gianfranco Tedeschi, permette al collettivo momenti di empatia unica ed a
Popolla e Colombo un intenso quanto sinuoso scambio melodico (cit. da Gaia
Critica).
Ora
un critico serio direbbe che "la registrazione prosegue con raro dinamismo
col foxtrot di Fred Rose "Black Maria" (1930) che, a dispetto della
nota ballabile cantabilità, si presenta come un collettivo infuocato e
frastagliato". Io
vi posso solamente dire che il pezzo in questione non ci mette molto a
scatenare irresistibilmente il battere del mio piede.
Segue
"Yardbird Shuffle" di James A. Noble (1941), sbilenca eppur dolce
come non era immaginabile fare, sfaccettata da brevi assoli dei quali, su
tutti, si staglia il clarinetto di Alberto Popolla, fino ad arrivare a
"Cannonball Blues" di Jelly Roll Morton (1926), arrangiata da Eugenio
Colombo, introdotta da un Tedeschi in tutt'uno col suo strumento.
"Sabor
de Habanera" di Giancarlo Schiaffini potrebbe essere la degna conclusione,
‘ché rimarca una comune e possibile influenza latina di tanti brani di quel
periodo - o comunque di molti degli amori di questo combo -. Sensuale
l'apertura al tenore di De Fabritiis, che Colombo evidenzia ma non salva dallo
struggente l'assolo al clarinetto basso di Popolla, il tutto senza mai perdere
il gusto più solare che c'è all'origine di questa danza. A
me ha scaldato il cuore…
Così
come si è aperto, il disco viene suggellato dall'impetuosa "The Great
Crush Collision March", che è il pezzo più indietro nel tempo che i
Freexielanders sono andati a scovare, dal momento che fu scritta da Scott
Joplin nel 1896 e che racchiude tanto della squisita pazzia di questo progetto
e della mai banale ironia dei suoi "architetti".
Si
inizia con la "rigida" cadenza tipica della marcia, che trasmuta poi
nella veloce sincope del ragtime - ed offre emozionali spunti riflessi di un
ballo di Paese alle mie orecchie - per concludersi poi nella follia cacofonica
di uno scontro indimenticabile.
Mo, ditemi che ero solo io a non conoscere questa storia…
Certo,
per iniziare degnamente il nuovo anno avrei dovuto darmi un tono, invece me ne
sto qui in pigiama e ciabatte a godere come un porco nel vedere la Sig.ra Semplicità
prendere da dietro Mr. Storiaricca, con tanto di preliminari ma senza precauzioni
mentali.
Ma
non è tutto qui, ed anzi mi scuso con i Freexie della mia banale
interpretazione del loro più strutturato lavoro, non solo perché il disco
nasconde anzitutto una Malus Track che vi invito a scoprire, e dal vivo il
gruppo ha già approcciato altri temi come "Bye Bye Blackbird" di Ray
Henderson, "Li'i Darlin" di Neal Hefti, "Java Rossa" di
Angelo Ramiro Borrella, "Siboney" di Ernesto Lecuona – e chissà
quanti altri saranno già stati riscoperti dalla polvere ed aspettano solo di
essere suonati - ma, come si dice, è sempre meglio alzarsi da tavola con un po'
di fame, per cui...
Sì,
lo sentivo già ma ora ne sono certo. Si possono abbracciare in un unico
contesto musiche diverse ed "antiche", improvvisarci sopra e rimanere
coerenti con se stessi. Nessuna magia, nessun mistero, basta solo sedersi - mai troppo comodi - looking back, playing forward e godersi le proprie emozioni.
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Art by
(1901 – 1970)
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The
Freexielanders
Aurelio
Tontini, trumpet
Giancarlo
Schiaffini, trombone
Eugenio
Colombo, alto sax
Errico
De Fabritiis, tenor sax
Alberto
Popolla, clarinet, alto clarinet
Francesco
Lo Cascio, vibraphone
Gianfranco
Tedeschi, double bass
Nicola
Raffone, drums
Looking Back, Playing Forward
Rudi Records
Cat # RRJ1032
Recorded the 13-14th December
2015 by
Lucio Leoni, Monkey Studios, Rome
Mixed
and mastered April 2016,
Francesco Lo Cascio & Lucio Leoni, Monkey Studios,
Rome
Cover
photo by Alessandro Carpentieri
Tracklist:
St. James Infirmary/Gotta get
to St. Joe (Joe Primrose/Joe Bishop) (7:59)
On the Banks of the Wabash (Paul Dresser) (6:10)
Peer’s Country Song (Misha
Mengelberg arr. by E. Colombo ) (4:19)
Come Sunday (Duke Ellington,
arr. by G. Schiaffini) (6:04)
Voci
del Deserto (Felice Montagnini) (5:20)
Mood Indigo (Duke Ellington,
arr. by G. Schiaffini) (5:08)
Black Maria (Fred Rose)
(5:51)
Yardbird Shuffle (James A.
Noble) (4:35)
Cannonball Blues (Jelly Roll
Morton, arr. by E. Colombo ) (4:31)
Sabor
de Habanera (Giancarlo Schiaffini) (3:50)
The Great Crush Collision
March (Scott Joplin, arr. G. Schiaffini)
(4:50)
Pienamente d'accordo, uno dei migliori dischi del 2016, ho colpevolmente mancato di recensirlo o aklmeno citarlo, ma visto che ci hai pensato tu, alla fine molto, molto meglio così :)
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