lunedì 28 gennaio 2013

Mario Schiano _ All Of Me _ Sings My Funny Valentine, 1999


Uno dei dischi più interessanti, a mio parere, ed intensi del 2012, non è solo un doveroso omaggio a Mario Schiano, uomo curioso e musicista tra i più attivi e sorprendenti e, forse proprio per questo, artista anomalo in un panorama che privilegia la ripetitiva uniformità collaudata, ma riporta alla luce, sotto forma di ghost track, anche uno stralcio fondamentale della sua poetica: il sincero amore e la profonda conoscenza del jazz tutto, trasmutato attraverso l’utilizzo della propria voce nella forma più originale e lontana dall’imitazione passiva degli stilemi afroamericani.


Di solito, quando si scrive «voce» per un musicista, s’intende il suono e la riconoscibilità del suo strumento, e sarebbe termine adatto soprattutto per il sassofono di Schiano, che ha giocato un ruolo unico nella evoluzione del jazz in Italia, ma in questo caso intendo proprio la sua voce come canto, in quanto l’ultima traccia di If Not è quella Song, già pubblicata nel febbraio del 1977 a conclusione del disco “Test”, registrato da Mario con quattro giovanissimi musicisti romani tra cui Maurizio Urbani, fratello minore di Massimo, che enuncia in maniera unica, ironica e sinceramente iconografica, la più disincantata delle utopie: il jazz non ha confini di sorta, il jazzista non ha limiti di forma.


Cito da Francesco Martinelli «Schiano ha descritto il rapporto con il sax con una frase che vale la pena di riportare: "Lo strumento mi risultava sempre come qualcosa di magico, un prolungamento cromato dell'esofago, che lasciava cantare fuori le cose di dentro". Si manifesta qui un rapporto con la musica che è viscerale nel senso più pregnante: tornano alla mente le pagine di Barthes dedicate alla grana della voce, "qualche cosa che è direttamente il corpo del cantante, trasportato in un solo movimento alle vostre orecchie, dal fondo delle caverne, dei muscoli, delle mucose, delle cartilagini...come se una sola pelle tappezzasse la carne interna del cantante e la musica che egli canta". Nell'opposizione teorica tra feno-canto e geno-canto introdotta da Julia Kristeva e presa da Barthes come punto di partenza, il geno-canto è "lo spazio in cui i significati germinano dal dentro della lingua e della sua stessa materialità... un gioco significante estraneo alla comunicazione, alla rappresentazione, all'espressione... non ciò che si dice, ma la voluttà dei suoi suoni significanti". »


È nota la fascinazione per l’avanspettacolo, per la tradizione musicale e per l’atmosfera dei night club di Mario Schiano, probabilmente retaggio delle proprie origini ma, più sicuramente, mezzo per affermare la sua iconoclastica partecipazione alla storia culturale di questo paese, tanto quanto è conosciuta, anche se raramente ricordata, la sua attiva presenza sui palcoscenici d’avanguardia, la sua irriverente e graffiante ironia culturale, la sua contrapposta posizione rispetto ai potenti ed i puristi del jazz.


Mario Schiano è stata la vera cartina tornasole del jazz italiano, sempre improvvisamente dall’altra parte della barricata che l’establishment dell’italietta musicale tendeva a costruire.
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Uomo incompreso del «’o vero free» già a metà degli anni Sessanta, mentre i jazzisti si prodigavano ancora nelle più comuni registrazioni delle colonne sonore cinematografiche o della musica d'atmosfera a metraggio; musicista singolare e cane sciolto nei confronti dei gruppi orchestrali che accompagnavano i cantanti più popolari, o infoltivano le orchestre RAI, ma che raramente vedevano i loro nomi stampati sulle copertine; coraggioso amante del Varietà e dell’avanspettacolo d’antan mentre, sul finire degli anni Settanta, le avanguardie cercavano gelosamente di mantenere a galla il loro status quo di modernisti in un immobile stagno creativo. Nessuna strada maestra, nessun compromesso, a qualsiasi prezzo. 
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Questo sembra essere il suo più sincero insegnamento.


Ma se della sua musica si è scritto, anche se mai abbastanza, è del suo rapporto con la forma canzone e con lo spettacolo più in generale che vorrei approfondire.

Già nel 1974 Schiano realizzò un «disco-spettacolo», o quello che probabilmente è il primo concept album inciso da un jazzista: Partenzadi Pulcinella per la Luna, che inizia proprio con un’apertura di sipario, si apre e chiude con una sigla da varietà e che ebbe anche una trasposizione televisiva operata da Tonino Del Colle, che generò non poche incomprensioni anche tra gli altri colleghi del jazz.


Nel 1978, dopo essersi confrontato con un disco in solo (AndHis All Stars), con l’anima dell’improvvisazione americana (Rendez-vouscon Sam Rivers) e con la scuola europea (AEuropean Proposal), infatti Mario Schiano decise, in maniera anacronistica, che era arrivato il momento di dover rendere omaggio alla grande tradizione della canzone americana, ed incide OldFashioned al sax alto, con un giovanissimo Antonello Salis al pianoforte.

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Dell’anno successivo è “Un Cielo di Stelle”, vero e proprio Varietà realizzato su vinile con l’inseparabile Vittorini. L’idea di fondo è questa: sul finire degli anni ’70, cominciano a sfumare le spinte culturali e politiche ed affiora l’arroganza, l’incompetenza e la voglia di successo fine a se stessa; due jazzisti falliti decidono di tentare la strada del Varietà e cercano di vendere il loro spettacolo ad un manager americano, accompagnato da due fidi impresari nostrani, guarda caso un perugino ed un bolognese. Gli impresari lasciano presto il teatro disgustati, mentre lo spettacolo finisce a scatafascio. I due musicisti se ne vanno sconsolati chiedendosi che cosa non ha funzionato.
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Molto più che un disco, una concreta ed urticante visione degli edonistici anni ’80.
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Oramai la sfida era lanciata, con la critica che appena appena si divertiva per lo spettacolo, ma che non riusciva nemmeno a fare un ragionamento su quelle schegge di follia creativa. Per il disco successivo, “Swimming Pool Orchestra”, Mario Schiano decise non solo di proseguire con l’ironia della provocazione (due musicisti sono chiusi in uno studio di registrazione fatiscente, dove il fonico cerca di riparare le tubature dell'acqua. I due provano nell'attesa, litigano, fino a quando lo studio si allaga e il disco non si può più fare), ma di affondare il colpo, invitando in studio Umberto D’Ambrosio, in arte Trottolino, un idolo dell’avanspettacolo, oramai dimenticato e che morirà alcuni mesi dopo, facendogli interpretare il testo di ‘O Vero Free (‘O vero free era chillo ‘e ‘na vota, tuccava ‘o core ‘o vero free…).
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Dopo aver cantato per qualche minuto alla fine dell’album Test, nel 1977, aver suonato a modo suo gli standard americani con Salis, aver omaggiato il Varietà e l’avanspettacolo con due lavori geniali, sarà solamente nel 1983 che Schiano si deciderà a ricordare gli anni del night, cioè quelli delle sue origini. Fu così che, in una decina di sedute, affiancato dal solito Vittorini, inciderà in maniera artigianale una manciata di canzoni italiane, omaggi al Maestro D’Anzi ed a Fred Bongusto, su 250 esemplari numerati e firmati di audiocassette: Mario Schiano e la Sua Orchestra – Premio Vongola d’Oro 1983. Un Must!
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Successivamente, Schiano ebbe ancora modo di mettere in pratica il suo sogno, perché un conto è ricostruire le atmosfere del varietà in un disco o reinterpretare le fumose canzoni dei night d’una volta su cassetta, tutt’altro è mettere in piedi un night club.
Nell’anno dello storico sorpasso del PCI sulla DC, in occasione della Festa dell’Unità di Roma, Schiano ricostruì un vero e proprio night anni ’50, chiamato “il Sorpasso”, anche in riferimento al film di Dino Risi, nel quale invitò i migliori musicisti italiani, da Gegè Munari a Carlo Pes, da Antonello Vannucchi ad Oscar Valdambrini, da Giorgio Rosciglione a Lino Quagliero, che ribattezzò “I Primi”, giocando sul titolo del quotidiano comunista che così titolava a tutta pagina i risultati di quell’elezione.
Su quel palcoscenico, sotto la conduzione ironica e scanzonata di Nicola Arigliano, passarono i più famosi cantanti dell’epoca, come Umberto Bindi, Tony Dallara, Betty Curtis… e Mario gongolava come un bambino alla festa del paese.
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Ma veniamo al 1999 ed all’ultimo omaggio alla canzone registrato da Mario Schiano, questa volta per l’intero disco senza il suo sax, ma solo con l’ausilio della sua particolarissima voce: quel My Funny Valentine registrato con il suo amico di sempre, Gegè Munari alla batteria, oltre a Cicci Santucci alla tromba, Maurizio Giammarco ai sassofoni, Antonello Vannucchi al piano e Giorgio Rosciglione al contrabbasso.
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Sicuramente ci sarà chi penserà che Mario Schiano non sapeva cantare, come erano tanti quelli che pensavano che lui non sapesse suonare… per me sentire la voce di Mario è un’emozione così forte che sento il dovere di condividere con chi ha la capacità di sentire, oltreché ascoltare.
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Chiudo prendendo a prestito ancora una volta le parole di Francesco Martinelli, che Mario lo ha conosciuto, studiato e capito: «Il cliché della presunta carenza di tecnica strumentale da parte di Schiano, una delle sue molte eresie che amava sventolare sotto il naso dei puristi, è stata usata per schivare i problemi posti dalla sua musica. L'accusa ricorrente di "non saper suonare il blues", a confronto delle periodiche lodi rivolte a crudi imitatori di passati stili e musicisti rivela non solo una mancanza di comprensione della musica di Schiano, ma una serie di fraintendimenti di base della musica afroamericana. In mancanza di essa, tali critici non sono ben posizionati per discutere i rapporti tra musica europea e jazz. 

I musicisti che mettono in discussione confini e concetti vengono sempre affrontati sul piano tecnico: sono incapaci di suonare o dotati di un inutile virtuosismo. Uno schema "a doppio vincolo" applicato a Charlie Parker e Thelonious Monk, ripetuto con John Coltrane e Albert Ayler, riciclato ancora con Evan Parker e Derek Bailey. Incapace di mettere in discussione con la musica il proprio ruolo, il "critico" si rifugia nell'attacco tecnico, apparentemente neutrale, per scappare dai problemi posti dalla musica. Mancanza di tecnica e tecnica eccessiva convergono sempre, in questi attacchi ispirati da una falsa ideologia, nel peccato capitale e indicibile, la mancanza di "swing”».


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Credits:

My Funny Valentine

Label: Splasc(h) Records
Catalog# CDH 697.2
Format: CD
Country: Italy

Recorded in Rome
on March 2, 5 and 11, 1999

Mario Schiano (vocals),
Cicci Santucci (trumpet, flugelhorn),
Maurizio Giammarco (tenor sax, soprano, flute),
Antonello Vannucchi (piano),
Giorgio Rosciglione (bass),
Gegè Munari (drums)


Tracklist:

1)     My Funny Valentine – 2:31
2)      Somebody Loves Me – 2:22
3)      All Of Me – 5:19
4)      Out Of Nowhere – 3:51
5)      Embraceable You – 3:54
6)      I Can’t Give You… - 4:37


7)      ‘S Wonderful – 1:13
8)      Ain’t Misbehavin’ – 2:54
9)      Bye Bye Blackbird – 4:43
10)  It Had To Be You – 3:56
11)  Yesterdays – 5:05
12)  It Don’t Mean A Thing – 2:33
13)  You Do Something To Me – 2:03


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Art by Jean Dubuffet
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lunedì 21 gennaio 2013

Entartete Musik


Ciao a tutti,

i problemi che trovate con RS sono gli esiti del loro "New Traffic Model" del nov 2012, in effetti una bella rottura de cojoni, che persiste nonostante il mio impegno a pagare la loro richiesta quota mensile.

Un po’ alla volta, stò spostando tutto in cartelle condivisibili, che sembra lascino più libertà d'azione apponendo però la temibile dicitura "38683698 è l'unico responsabile dei dati pubblicati quì", dove per 38683698 intendono me medesimo [sic!]

Non vedo altra soluzione, anzi, in questo momento vedo decine di cloud provider apparire e scomparire (con relativa perdita di dati e pioggia di richieste di new-upload) sui siti amici: se voi avete qualche dritta 'bbona, fatevi sentire!

keep in touch!

domenica 13 gennaio 2013

TOP JAZZ 2012 – WHAT IF…


Se la musica, ed in particolare il Jazz, sembra occupare gran parte delle mie odierne passioni, in realtà devo confidarvi che si è affacciata tardi alla finestra dei miei desideri.

Infatti, ero già un ragazzetto di tredici/quattordici anni quando incontrai Three Imaginary Boys, il mio primo disco in assoluto.


(ah, se vi va avviate pure la playlist, oppure continuate a leggere in silenzio, ossequioso quanto inutile per un post sulla musica).
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Intendiamoci, non che questo fu il primo disco che entrò a casa mia, per fortuna la musica è sempre stata presente nella mia vita, ma all’epoca c’era troppa distanza tra me ed i De Andrè, i Conte, i Paoli, i Gaber o le Mina di mio padre e, oltre a questi grandi Signori, tra i pochi 45 giri di mia sorella girava roba tipo Upside down di Diana Ross, la Rettore e Blondie, Babooshka il frantumatore, Stefania Rotolo e Bosè, il Disco Bambina di Heather Parisi, Please don't go dei K.C. and the Sunshine Band … 
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Si dice che in adolescenza uno sceglie i propri miti per imitazione o per contrasto; io ero già un pischelletto oscuro di natura e quella scintillante colonna sonora, danzereccia ed obbligata dalla condivisione della stessa stanza, fece il resto.
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Potete immaginare il fascino immediato per quella cover rosa eppur senza trucco, la catarsi purificatrice nel riflettermi in quei tre sobri soggetti, appena elettrificati ma non patinati e l’emozione profonda all’ascolto di quell’intro crescente che apriva 10.15 Saturday Night.
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Chissà cosa sarebbe successo se mia sorella fosse stata una punkettona… magari io per riflesso avrei ascoltato i Matia Bazar, Alan Sorrenti o Gianni Togni, Riccardo Fogli o, al massimo, quando mi sarei sentito più trasgressivo, i Cugini di Campagna.
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Ma non era di questo che vi volevo raccontare, ma di una delle passioni che ricordo da sempre, legata alla fantasia ed alle storie, ai sogni ed ai primi dubbi di ragazzo, la passione per i fumetti. Seppur non trovo tracce nella mia memoria delle primissime letture, probabilmente Topolino, Braccio di Ferro, Tiramolla, Geppo o Soldino, insomma, tutte quelle cose da intrattenimento, ho invece chiarissimo l’impatto emotivo generato nella mia vita di ragazzino dall’apparire dei supereroi!
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Non furono le calzamaglie, tanto care agli psicologi superficiali, ad affascinarmi, forse appena appena le maschere riuscivano ad ammaliare la mia curiosità. Io non amavo la potenza fisica, ma ero incuriosito dalle sfaccettature di quei mondi privati che si offrivano allo sguardo pubblico, dalle molteplicità degli universi paralleli, eppure possibili, dalla varietà degli arcinemici che ogni volta con strumenti diversi minavano l’integrità dell’eroe, dall’evoluzione dei personaggi che, mi appare chiaro adesso, crescevano insieme a me.
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Non mi piacevano tutti indistintamente, anzi, io non ero affatto un fan di Superman. E quasi mai mi immedesimavo in Thor o mi scambiavo per Hulk, non ero un convinto patriota come Cap America e raramente mi sentivo in famiglia con i Fantastici Quattro ma, nella mia cameretta di periferia o nel dopopranzo sonnacchioso di una spiaggia romana, ero sicuramente in sintonia con molti altri personaggi di carta.
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Il primo incontro credo sia stato con Spiderman, forse perché mi sembrava realistica la casualità con la quale quello sfigato e smilzo ragazzo aveva acquisito i superpoteri, ed il suo stare nell’ombra dei compagni più fichi e strafottenti del college, l’antitesi cioè degli idoli delle ragazzine, il suo doversi arrabattare lavorando per tirare avanti la giornata, aveva più punti di collisione con la mia vita che quella di tanti coetanei che vedevo sbocciare intorno a me.
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Dopo arrivò DareDevil, e fu il vero amore. Figura rispettabile e di successo nei panni quotidiani dell’avvocato, persona con profonde cicatrici nell’animo ed una invalidante menomazione fisica nell’intimo privato, diventava nella notte un eroe senza paura, bilanciato tra l’utopia della giustizia uguale per tutti e la contrastante vendetta personale. Matt Murdok era un uomo senza poteri, che aveva saputo fare del suo svantaggio un punto di forza e del suo doloroso passato un ponte per tentare almeno di proseguire nell’oscuro futuro.
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In seguito incontrai Batman ed il buio prese la più affascinante delle forme. La fatalità di un accadimento, la sua lotta solitaria, il suo rifugio nelle più recondite profondità, l’animale tenebroso, incarnazione della notte e spesso accomunato a demoni o vampiri, ma che ha anche una valenza di rinascita per alcune culture, assunto a personale simbolo, il suo incubo ricorrente, l’ingegno tecnico piegato alla sua ossessione, quell’aurea glamour da playboy spensierato a fare da contrappeso ai dubbi lancinanti del suo alter ego… 
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http://25.media.tumblr.com/a3574a2de5e83187250416d8905b8a6e/tumblr_mgh1yv1NXu1qmkw05o1_500.gif


Dopo vennero Spirit e Corto Maltese, gli scalcagnati componenti del gruppo TNT ed il caustico Zanardi, Bimbo Bim e Ranxerox, il Sandman della Vertigo e le ragazze di Strangers in Paradise, i Watchmen ed i cazzuti abitanti di Sin City, lo Sconosciuto di Magnus ed il Predicatore di Ennis & Dillon e tante Straordinarie Avventure Qualsiasi che mi accompagnano ancora oggi. Venne il tempo maturo della mia vita, insomma, e dopo venne pure il Jazz.
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Ma che c’entrano questi discorsi con il Top Jazz 2012, al quale questo post è dedicato, direte voi, eppure vi posso assicurare che non sto divagando.
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E sì, perché se tra gli aficionados dei fumetti era tanto di moda stilare classifiche per affermare se fosse più forte Hulk della Cosa, io non ho mai avuto stoiche certezze ma, piuttosto, oscillavo da un eroe ad un altro a seconda del mio stato d’animo, del preciso momento di lettura, della validità o meno degli arcinemici e pure delle reminiscenze della mia memoria, infischiandomene della rigida coerenza.
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Infatti, una delle serie che più m’incuriosiva era What If, in cui l’inflessibile continuity delle storie veniva messa in discussione da un evento imprevisto e, spesso, contrario alle caratteristiche stesse della trama principale, tipo: Cosa sarebbe successo se i Fantastici quattro avessero avuto tutti lo stesso potere? Cosa sarebbe successo se gli X-Men fossero morti nella loro prima missione? Cosa sarebbe successo se Spiderman non avesse sposato Mary Jane? Cosa sarebbe successo se Conan il barbaro vivesse al mondo d’oggi? Cosa sarebbe successo se la famiglia del Punitore non fosse stata uccisa?
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Piccole incrinature che sconvolgevano fin nelle fondamenta le solide sicurezze dei fan, che di solito si lamentavano, si arrabbiavano, gridavano al sacrilegio e addirittura abbandonavano la serie, ma che offrivano, almeno per me, punti di vista inaspettati e stupefacenti. 
Curiosa instabilità, improvvisazione affascinante.
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Ecco, è con questo spirito che ho accettato l’invito di Luca Conti ed ho partecipato al Top Jazz 2012, nel trentennale della sua edizione, più nella speranza di sentirmi coinvolto in un pezzetto della storia di questa musica, e di sorprendermi nella successiva lettura collettiva, che di vedere confermata la mia personale, e quindi già nota classifica.
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Ora che i risultati sono stati dati alle stampe, diffusi attraverso un comunicato ufficiale, resi pubblici a tutti in edicola sul numero di gennaio di Musica Jazz al quale è allegato il CD che permette anche l’ascolto di queste scelte vincitrici, vergate senza infamia e senza lode da più di ottanta appassionati, tra i quali per la prima volta sono stati coinvolti anche alcuni bloggers, come Mondo Jazz e Jazz nel Pomeriggio, oltre a questo del vostro umile scrivente, non resta molto da dire. 
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Nella scorsa edizione ci si era interrogati sulla validità o meno di un referendum, ed i dubbi restano tali. Ma osservare in un sol colpo d’occhio una così variegata costellazione di dischi e di musicisti, non può che essere utile al patito del jazz, quanto al neofita che cerca un’indicazione per orientarsi, al di là dei numeretti posti al di fianco. 
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Nel 2011 ci si era scervellati tra le mille voci dei particolari strumenti, perdendo di vista, a mio avviso, l’ampiezza e la profondità dell’intero panorama musicale, nel frazionamento ossessivo, confinante e lombrosiano del linguaggio strumentale, finalmente sempre più interscambiabile, contaminato e fieramente bastardo.
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Nell’ultimo referendum ci si era concentrati sul jazz italiano, come fosse una specie unica o un cru circoscritto, mentre questa volta si è tornati alle nove categorie divise tra dischi, musicisti, gruppi e nuovi talenti mondiali, doppiate con focus sull’Italia, più una ristampa meritevole. Sembrerebbe un passo indietro alle origini del Top Jazz, ma è forse un passo avanti per affermare apertamente la oramai vetusta maturità del jazz suonato nel nostro paese, che così diviene solo uno dei capitoli nel confronto globale.
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«siamo esseri umani su un pianeta che ruota e lanciamo suoni come aquiloni nel vento, cercando di mettere in contatto sonorità sincere e interessanti con le persone che ci circondano»
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Queste alcune delle parole che Rob Mazurek, il più votato musicista dell’anno in ex aequo con Wadada Leo Smith, ha rilasciato ai tipi di Musica Jazz, in un numero che introduce e supporta il referendum in maniera eccellente, forse come mai prima, con interviste ai vincitori realizzate nell’immediato ridosso dell’attribuzione del premio.
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E in effetti questa volta, il referendum sembra portare all’insieme, con i tantissimi gruppi allargati e/o Orchestre votate, stringendo un occhio ai lavori di più ampio respiro (provate  a vedere quante Suite sono state votate nella categoria dei Dischi dell’anno), trovando inconsapevoli collegamenti con la trasversalità del linguaggio e la poetica su tutto, facendo poi espandere il paesaggio sotto i nostri occhi, con affermazioni prevedibili ma meritate, come quella del Maestro dell’umiltà Franco D’Andrea, risvegliando vecchi dischi assopiti negli archivi, come nel caso del live di Tokyo del 1979, illuminando quella di un portento dell’ubiquità come Mauro Ottolini, o donando nuovo prestigio ad un musicista che ne meritava ben altro quando ancora poteva goderselo, altro che in tempi di ristampe.
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Per quanto mi riguarda, ho colmato la mia ignoranza soddisfacendo almeno in parte la mia curiosità, come nei due miglior nuovi talenti, Mary Halvorson ed Enrico Zanisi, che ovviamente avevo sentito nominare ma sui quali non mi ero mai soffermato, o sulla formazione vincitrice, quella Artchipel Orchestra guidata da Ferdinando Faraò, che ascolterò volentieri.
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Ma a scorrere tutta la lista non si finisce di sorprendersi:

«il messaggio che la musica dà oggi è la bellezza della fama e del denaro. Ciò nonostante tutti i miei colleghi, intendo i musicisti creativi, propongono una musica che è in stretto contatto con la comunità. Tutti noi crediamo che essa sia una trasformazione dell’azione: chi la ascolta è spronato a migliorare la società»
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Le parole di Wadada Leo Smith, raccolte nell’intervista pubblicata sul numero di gennaio di Musica Jazz, mi aiutano a chiudere questo post, con un pensiero che vi voglio lasciare: chissà cosa sarebbe successo alla storia di questa musica se i critici di tutti i Top Jazz fossero sempre stati creativi come questa volta…
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p.s.
se avete scelto di far partire la playlist, state ascoltando un estratto del mio personale Top Jazz 2012, più una meritatissima intro, mentre i voti dei giurati per ciascuna delle categorie li trovate qui.

secundus p.s.
se state ascoltando la playlist, troverete una versione di My Funny Valentine del Quintetto di Paolo Fresu, che vi potrà sembrare fuori luogo rispetto al Top Jazz, ma che contiene uno degli assolo al sax tenore più affascinanti e ricchi di spirito nuovo, rispetto ad un abusato standard che abbiamo ascoltato molte volte.
Infatti, nonostante la soddisfazione dei risultati, una punta di amarezza mi è rimasta nel vedere il nome di Tino Tracanna ancora nell’ombra.



tertius et ultimum p.s.

ho già ricevuto diversi contatti e proposte di invio materiali per recensione, come mi aveva preannunciato un caro amico e vecchia volpe del Top Jazz, anche tramite nuovi canali di condivisione tipo we transfert e grooveshark.

Approfitto per dire a tutti che sono onorato e curioso di conoscere nuova musica, ma comunemente non faccio mere recensioni o quantomeno, quando la musica tocca le mie corde più profonde, non faccio recensioni comuni.


In ogni caso, se volete, il mio contatto è qui, ma non fatemi proposte oscene e non aspettatevi grande notorietà da queste piccole pagine.