Uno
dei dischi più interessanti, a mio parere, ed intensi del 2012, non è solo un
doveroso omaggio a Mario Schiano, uomo curioso e musicista tra i più attivi e sorprendenti
e, forse proprio per questo, artista anomalo in un panorama che privilegia la
ripetitiva uniformità collaudata, ma riporta alla luce, sotto forma di ghost track, anche uno stralcio
fondamentale della sua poetica: il sincero amore e la profonda conoscenza del
jazz tutto, trasmutato attraverso l’utilizzo della propria voce nella forma più
originale e lontana dall’imitazione passiva degli stilemi afroamericani.
Di
solito, quando si scrive «voce» per un musicista, s’intende il suono e la
riconoscibilità del suo strumento, e sarebbe termine adatto soprattutto per il
sassofono di Schiano, che ha giocato un ruolo unico nella evoluzione del jazz
in Italia, ma in questo caso intendo proprio la sua voce come canto, in quanto
l’ultima traccia di If Not è quella Song, già pubblicata nel febbraio del 1977 a conclusione del disco
“Test”, registrato da Mario con quattro giovanissimi musicisti romani tra cui
Maurizio Urbani, fratello minore di Massimo, che enuncia in maniera unica,
ironica e sinceramente iconografica, la più disincantata delle utopie: il jazz
non ha confini di sorta, il jazzista non ha limiti di forma.
Cito da Francesco Martinelli «Schiano ha descritto il rapporto con il sax con
una frase che vale la pena di riportare: "Lo strumento mi risultava sempre come qualcosa di magico, un
prolungamento cromato dell'esofago, che lasciava cantare fuori le cose di
dentro". Si manifesta qui un rapporto con la musica che è viscerale
nel senso più pregnante: tornano alla mente le pagine di Barthes dedicate alla
grana della voce, "qualche cosa che
è direttamente il corpo del cantante, trasportato in un solo movimento alle
vostre orecchie, dal fondo delle caverne, dei muscoli, delle mucose, delle
cartilagini...come se una sola pelle tappezzasse la carne interna del cantante
e la musica che egli canta". Nell'opposizione teorica tra feno-canto e
geno-canto introdotta da Julia Kristeva e presa da Barthes come punto di
partenza, il geno-canto è "lo spazio
in cui i significati germinano dal dentro della lingua e della sua stessa
materialità... un gioco significante estraneo alla comunicazione, alla
rappresentazione, all'espressione... non ciò che si dice, ma la voluttà dei
suoi suoni significanti". »
È
nota la fascinazione per l’avanspettacolo, per la tradizione musicale e per
l’atmosfera dei night club di Mario Schiano, probabilmente retaggio delle
proprie origini ma, più sicuramente, mezzo per affermare la sua iconoclastica
partecipazione alla storia culturale di questo paese, tanto quanto è
conosciuta, anche se raramente ricordata, la sua attiva presenza sui
palcoscenici d’avanguardia, la sua irriverente e graffiante ironia culturale,
la sua contrapposta posizione rispetto ai potenti ed i puristi del jazz.
Mario
Schiano è stata la vera cartina tornasole del jazz italiano, sempre
improvvisamente dall’altra parte della barricata che l’establishment
dell’italietta musicale tendeva a costruire.
.
Uomo
incompreso del «’o vero free» già a metà degli anni Sessanta, mentre i jazzisti
si prodigavano ancora nelle più comuni registrazioni delle colonne sonore
cinematografiche o della musica d'atmosfera a metraggio; musicista singolare e
cane sciolto nei confronti dei gruppi orchestrali che accompagnavano i cantanti
più popolari, o infoltivano le orchestre RAI, ma che raramente vedevano i loro
nomi stampati sulle copertine; coraggioso amante del Varietà e
dell’avanspettacolo d’antan mentre,
sul finire degli anni Settanta, le avanguardie cercavano gelosamente di
mantenere a galla il loro status quo di modernisti in un immobile stagno creativo.
Nessuna strada maestra, nessun compromesso, a qualsiasi prezzo.
.
Questo sembra
essere il suo più sincero insegnamento.
Ma
se della sua musica si è scritto, anche se mai abbastanza, è del suo rapporto
con la forma canzone e con lo spettacolo più in generale che vorrei
approfondire.
Già
nel 1974 Schiano realizzò un «disco-spettacolo», o quello che probabilmente è il primo concept album inciso da un
jazzista: Partenzadi Pulcinella per la Luna, che inizia proprio con un’apertura di sipario,
si apre e chiude con una sigla da varietà e che ebbe anche una trasposizione
televisiva operata da Tonino Del Colle, che generò non poche incomprensioni
anche tra gli altri colleghi del jazz.
Nel
1978, dopo essersi confrontato con un disco in solo (AndHis All Stars), con l’anima dell’improvvisazione americana (Rendez-vouscon Sam Rivers) e con la scuola europea (AEuropean Proposal), infatti Mario Schiano decise, in maniera anacronistica,
che era arrivato il momento di dover rendere omaggio alla grande tradizione
della canzone americana, ed incide OldFashioned al sax alto, con un giovanissimo Antonello Salis al pianoforte.
.
Dell’anno
successivo è “Un Cielo di Stelle”, vero e proprio Varietà realizzato su vinile
con l’inseparabile Vittorini. L’idea di fondo è questa: sul finire degli anni
’70, cominciano a sfumare le spinte culturali e politiche ed affiora
l’arroganza, l’incompetenza e la voglia di successo fine a se stessa; due
jazzisti falliti decidono di tentare la strada del Varietà e cercano di vendere
il loro spettacolo ad un manager americano, accompagnato da due fidi impresari
nostrani, guarda caso un perugino ed un bolognese. Gli impresari lasciano
presto il teatro disgustati, mentre lo spettacolo finisce a scatafascio. I due
musicisti se ne vanno sconsolati chiedendosi che cosa non ha funzionato.
.
Molto
più che un disco, una concreta ed urticante visione degli edonistici anni ’80.
.
Oramai
la sfida era lanciata, con la critica che appena appena si divertiva per lo
spettacolo, ma che non riusciva nemmeno a fare un ragionamento su quelle
schegge di follia creativa. Per il disco successivo, “Swimming Pool Orchestra”,
Mario Schiano decise non solo di proseguire con l’ironia della provocazione
(due musicisti sono chiusi in uno studio di registrazione fatiscente, dove il
fonico cerca di riparare le tubature dell'acqua. I due provano nell'attesa,
litigano, fino a quando lo studio si allaga e il disco non si può più fare), ma
di affondare il colpo, invitando in studio Umberto D’Ambrosio, in arte Trottolino,
un idolo dell’avanspettacolo, oramai dimenticato e che morirà alcuni mesi dopo,
facendogli interpretare il testo di ‘O Vero Free (‘O vero free era chillo ‘e ‘na vota, tuccava ‘o core ‘o vero free…).
.
Dopo
aver cantato per qualche minuto alla fine dell’album Test, nel 1977, aver
suonato a modo suo gli standard americani con Salis, aver omaggiato il Varietà
e l’avanspettacolo con due lavori geniali, sarà solamente nel 1983 che Schiano
si deciderà a ricordare gli anni del night, cioè quelli delle sue origini. Fu
così che, in una decina di sedute, affiancato dal solito Vittorini, inciderà in
maniera artigianale una manciata di canzoni italiane, omaggi al Maestro D’Anzi
ed a Fred Bongusto, su 250 esemplari numerati e firmati di audiocassette: Mario Schiano e la Sua Orchestra – Premio Vongola d’Oro 1983. Un Must!
.
Successivamente,
Schiano ebbe ancora modo di mettere in pratica il suo sogno, perché un conto è
ricostruire le atmosfere del varietà in un disco o reinterpretare le fumose
canzoni dei night d’una volta su cassetta, tutt’altro è mettere in piedi un
night club.
Nell’anno
dello storico sorpasso del PCI sulla DC, in occasione della Festa dell’Unità di
Roma, Schiano ricostruì un vero e proprio night anni ’50, chiamato “il
Sorpasso”, anche in riferimento al film di Dino Risi, nel quale invitò i
migliori musicisti italiani, da Gegè Munari a Carlo Pes, da Antonello Vannucchi
ad Oscar Valdambrini, da Giorgio Rosciglione a Lino Quagliero, che ribattezzò
“I Primi”, giocando sul titolo del quotidiano comunista che così titolava a
tutta pagina i risultati di quell’elezione.
Su
quel palcoscenico, sotto la conduzione ironica e scanzonata di Nicola
Arigliano, passarono i più famosi cantanti dell’epoca, come Umberto Bindi, Tony
Dallara, Betty Curtis… e Mario gongolava come un bambino alla festa del paese.
.
Ma
veniamo al 1999 ed all’ultimo omaggio alla canzone registrato da Mario Schiano,
questa volta per l’intero disco senza il suo sax, ma solo con l’ausilio della
sua particolarissima voce: quel My Funny Valentine registrato con il suo amico
di sempre, Gegè Munari alla batteria, oltre a Cicci Santucci alla tromba,
Maurizio Giammarco ai sassofoni, Antonello Vannucchi al piano e Giorgio
Rosciglione al contrabbasso.
.
Sicuramente
ci sarà chi penserà che Mario Schiano non sapeva cantare, come erano tanti
quelli che pensavano che lui non sapesse suonare… per me sentire la voce di
Mario è un’emozione così forte che sento il dovere di condividere con chi ha la
capacità di sentire, oltreché ascoltare.
.
Chiudo
prendendo a prestito ancora una volta le parole di Francesco Martinelli, che
Mario lo ha conosciuto, studiato e capito: «Il cliché della presunta carenza di
tecnica strumentale da parte di Schiano, una delle sue molte eresie che amava
sventolare sotto il naso dei puristi, è stata usata per schivare i problemi
posti dalla sua musica. L'accusa ricorrente di "non saper suonare il
blues", a confronto delle periodiche lodi rivolte a crudi imitatori di
passati stili e musicisti rivela non solo una mancanza di comprensione della
musica di Schiano, ma una serie di fraintendimenti di base della musica
afroamericana. In mancanza di essa, tali critici non sono ben posizionati per
discutere i rapporti tra musica europea e jazz.
I musicisti che mettono in discussione confini e concetti vengono sempre affrontati sul piano tecnico: sono incapaci di suonare o dotati di un inutile virtuosismo. Uno schema "a doppio vincolo" applicato a Charlie Parker e Thelonious Monk, ripetuto con John Coltrane e Albert Ayler, riciclato ancora con Evan Parker e Derek Bailey. Incapace di mettere in discussione con la musica il proprio ruolo, il "critico" si rifugia nell'attacco tecnico, apparentemente neutrale, per scappare dai problemi posti dalla musica. Mancanza di tecnica e tecnica eccessiva convergono sempre, in questi attacchi ispirati da una falsa ideologia, nel peccato capitale e indicibile, la mancanza di "swing”».
I musicisti che mettono in discussione confini e concetti vengono sempre affrontati sul piano tecnico: sono incapaci di suonare o dotati di un inutile virtuosismo. Uno schema "a doppio vincolo" applicato a Charlie Parker e Thelonious Monk, ripetuto con John Coltrane e Albert Ayler, riciclato ancora con Evan Parker e Derek Bailey. Incapace di mettere in discussione con la musica il proprio ruolo, il "critico" si rifugia nell'attacco tecnico, apparentemente neutrale, per scappare dai problemi posti dalla musica. Mancanza di tecnica e tecnica eccessiva convergono sempre, in questi attacchi ispirati da una falsa ideologia, nel peccato capitale e indicibile, la mancanza di "swing”».
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My Funny Valentine
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Art by Jean Dubuffet
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Credits:
My Funny Valentine
Label: Splasc(h) Records
Catalog# CDH 697.2
Format: CD
Country: Italy
Catalog# CDH 697.2
Format: CD
Country: Italy
Recorded in Rome
on March 2, 5 and 11, 1999
Mario Schiano (vocals),
Cicci Santucci (trumpet, flugelhorn),
Maurizio Giammarco (tenor sax, soprano, flute),
Antonello Vannucchi (piano),
Giorgio Rosciglione (bass),
Gegè Munari (drums)
Tracklist:
1)
My Funny Valentine – 2:31
2) Somebody Loves Me –
2:22
3) All Of Me – 5:19
4) Out Of Nowhere –
3:51
5) Embraceable You –
3:54
6) I Can’t Give You…
- 4:37
7) ‘S Wonderful – 1:13
8) Ain’t Misbehavin’ –
2:54
9) Bye Bye Blackbird –
4:43
10) It Had To Be You –
3:56
11) Yesterdays – 5:05
12) It Don’t Mean A
Thing – 2:33
13) You Do Something
To Me – 2:03
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Art by Jean Dubuffet
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Grazie per il lavoro che fai su Schiano. È un musicista di cui fatico a trovare i dischi e soprattutto, come dici giustamente tu, di cui non si scrive mai abbastanza. Ho un'immagine di lui ora grazie alle tue parole qui e in post precedenti.
RispondiEliminaEra uno straordinario entertainer, altro che; in un lontano Festival di Noci, l'anno che venne a mancare Massimo Urbani con Mario che, singhiozzante, diede la notizia alla grande tavolata dei musicisti presenti, lui, in una sorta di dopo festival, faceva un incredibile organo-bar, cantando un po' di tutto, dai classici (e meno classici) napoletani a quelli americani, con la sua voce unica.
RispondiEliminaDi questo lavoro non sapevo nulla, una grandissima emozione.
ROBERTO DEL PIANO
very good album! thanks much!!!
RispondiEliminaIgor
Bellissimo!
RispondiEliminaIl commento di Roberto del Piano dice già tutto: io mi accodo, e rilancio con la speranza di un nuovo upload per il "Vongola d'oro '83". Please....
RispondiEliminasalve,
RispondiEliminaBellissimo brano.acuto e intelligente.
Si rende ancora troppo poco omaggio alla sua memoria....