Pioveva
fitto quella sera. Franco era sceso dalla metropolitana in piazzale Lotto e si
era avviato a piedi lungo il viale Monterosa. Camminava chino, sotto quel
dannato acquazzone, lasciando liberi i pensieri. […] ed era arrivato al Derby,
il locale che Gianni Bongioanni aveva ereditato dal padre.
In
origine era Whisky a Go-Go: si mangiava, si beveva, era un modo come un altro
per scimmiottare gli americani. Ma Bongioanni aveva capito che forse quel modo
di gestire il locale non avrebbe dato frutti. Così aveva cominciato a girare
gli altri club milanesi ed era arrivato al Santa Tecla, dove aveva incontrato
Enrico Intra e, con lui, aveva poi dato vita all’Intra Derby Club. Un buco dove
si suonava e si facevano spettacoli di cabaret ed era il Trio di quel giovane
pianista, Enrico Intra, a intrattenere il pubblico. Intra, con Pallino Solonia
al basso e Pupo De Luca alla batteria. Era un bel tipo quell’Intra, giovane,
spavaldo, allegro, con un modo di suonare molto nuovo, originale, che faceva
tesoro di quanto era accaduto nel jazz, il be-bop, il bop duro, il nuovo free,
ma che mischiava le carte, scivolava fra uno stile e l’altro, occupava spazi
inediti. Aveva anche un fratello, Gianfranco, pianista anche lui oltre che
arrangiatore e direttore d’orchestra. […]
L’Intra
Derby era nato per il jazz, ma anche in questo caso il pubblico aveva
dimostrato di non essere preparato per quella musica americana, così Pupo De
Luca aveva cominciato a raccontare delle storie ironiche, a inventare
barzellette, poi era arrivato Enzo Jannacci che aveva appena inciso le sue
memorabili “scarp de tennis” e tutti gli altri, da Gaber a Lino Toffolo, a
Bruno Lauzi, a Franco Nebbia, a Tinin e Velia Mantegazza, coi loro pupazzi, più
avanti Cochi e Renato e altri comici ancora. Tra una scenetta e l’altra, tra
una battutaccia ed un siparietto, entrava di prepotenza il jazz di Intra e a
lui si univano spesso degli ospiti, musicisti milanesi o altri di passaggio a
Milano. Intra si batteva con tutto il suo entusiasmo, ma il pubblico non sempre
mostrava di capire quella sua musica “astrusa”, colma di modi inediti di
suonare.
Quella
sera Franco andava al Derby proprio per partecipare ad una di quelle occasioni,
con il Trio di Intra. I due si conoscevano da tempo, avevano anche inciso dei
dischi insieme, ma ancora non avevano pensato di collaborare. Quella sera
avevano capito che il sodalizio era possibile: Enrico teso verso le “nuove
cose”, Franco più tradizionale. I loro modi riuscivano, comunque, a legare
ottimamente e la loro musica era dinamica, moderna, colma di trovate. Gli
strappi di Intra, moderati dal melodico andare di Franco.
Racconta
Enrico Intra: «Avevo già avuto modo di conoscere Franco. Avevamo anche inciso
qualcosa insieme, chiamati da Mister Lee che era il direttore artistico de La Voce del Padrone. Ma non
avevamo avuto altre occasioni, pur conoscendoci e rispettandoci. Pensavo che
Franco fosse uno straordinario stilista animato da uno spirito naif. Tutto
quello che faceva era naturale, credo sia stata proprio questa sua spontaneità,
oltre alla tecnica ed alla capacità di trasmettere emozioni, a dargli simpatie
e popolarità. La sua musica è sempre lineare, razionale, piacevole, così è
stato facile intenderci, mettere insieme i nostri diversi modi d’intendere il
jazz e, forse, senza neppure rendercene conto, creare un nostro linguaggio».
Franco
ed Enrico avevano anche fatto un duo per accompagnare Ornella Vanoni. Otto
serate a trecentomila lire ciascuna, cento a testa. Ornella si era appena fatta
conoscere con le “canzoni della mala” che le avevano cucito addosso Strehler,
Campi, Fo, ma era già pronta a dedicarsi a quelle nuove canzoni che Tenco,
Bindi, Paoli andavano scrivendo. Canzoni che Franco ed Enrico facevano pulsare
in modo jazzistico, per poi abbandonarsi anche a “soli” decisamente jazz:
Franco al basso e alla chitarra, Enrico al piano, ma anche alle maracas.
Suonare era pur sempre un grande gioco fanciullesco.
Erano
i primi anni Sessanta e jazz, teatro, cabaret, mischiavano le loro strade anche
grazie a quegli autentici talenti che animavano le scene.
«Eravamo
e siamo rimasti diversi» racconta Cerri parlando di Intra, «io sono tonale. Già
il be-bop, al primo incontro, mi aveva un po’ frastornato. Figuriamoci il free,
un altro mondo. C’era stato un concerto al Lirico, il gruppo di Miles Davis con
John Coltrane al sassofono e gli appassionati milanesi si erano divisi. Alcuni
ne erano usciti entusiasti, altri poco convinti. Io capivo che si trattava di
musica di altissima qualità ma facevo fatica a digerirla, avevo bisogno di tempo.
Enrico, invece, assorbiva tutto, si sentiva a suo agio in tutto ciò che ci
arrivava di nuovo, come accadeva ad Enrico Rava, a Massimo Urbani, a Giorgio
Gaslini e ad altri ancora.
Io faccio musica come se scrivessi un racconto, ho
bisogno di seguire una certa logica, il free spezza ogni cosa, sconvolge i
temi, li disperde in tante schegge; un’operazione molto intellettuale, nella
quale non mi ritrovavo. Ciononostante, o forse proprio per questo, le nostre
due nature riuscivano a conciliarsi. Sentivo che Enrico a volte doveva tenere a
freno la fantasia, così come io cercavo di adeguarmi, mi sentivo demodé e
volevo allargare il mio panorama. Eppure le nostre due nature finivano per
conciliarsi. E più avanti nel tempo avevamo formato un Quartetto, con Azzolini
al basso e Gilberto Cuppini alla batteria, che dura ancora, sia pure cambiando
a volte basso e batteria, Lucio Terzano e poi Marco Vaggi, Paolo Pellegatti e
Tony Arco. Una sera Cuppini non era arrivato a Lecce. Avevamo pensato di far
saltare l’esibizione, poi Enrico aveva detto: suoniamo in Trio, come Art Tatum,
come Oscar Peterson e ci eravamo resi conto che anche così la musica funzionava»
[…]
Gli
anni Sessanta erano volati via così, una sorta di straordinaria palestra, nella
quale il jazz italiano era maturato, liberandosi a poco a poco dai lacci,
troppo stretti, degli americani. Erano i maestri, certo, ma i nostri musicisti
stavano elaborando un linguaggio legato alla loro cultura e, come sappiamo,
oggi quel linguaggio è maturato, è addirittura esploso in un jazz che, pur
senza tradire il passato, ha assunto connotazioni decisamente svincolate dalle
vecchie radici.
da “Franco Cerri - In Punta di Dita” di Vittorio Franchini, Sigma Libri 2006
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Credits:
Il Trio _ Omaggio a Bill Evans
Label: DIRE
Catalog#: FO 361
Format: LP
Country: Italy
Recorded at Studio 7
Maj 27 and 28, 1981
Franco Cerri (guitar)
Enrico Intra (piano)
Lucio Terzano (bass)
Tracklist :
1) Dicotonia (E.Intra) - 4:37
2) Perhaps (L.Fontana) - 5:48
3) But not for Me
(G.Gershwin) - 4:19
1) Tanto Tempo “Sol” (F.Cerri - E.Intra) - 6:22
2) Ballade for Fiory
(E.Intra) - 3:39
3) Romantico (F.Cerri) - 3:47
4) Song for Lucio (F.Cerri - E.Intra) - 1:06
Un incontro assai stimolante, sicuramente da ascoltare con grande attenzione.
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