C’è
stato un tempo in cui i dibattiti sul jazz si creavano e si sviluppavano tra gli
“uomini di cultura” del nostro paese e, perché no, anche tra gli appassionati.
Probabilmente
il primo tentativo risale al 1952, quando Gigi Movilia traeva alcune
conclusioni su due paginette apparse su Musica Jazz, intervistando lo scrittore
Vitaliano Brancati,
il pittore Giuseppe Migneco ed il critico Franco Abbiati, oltre ad alcuni lettori della rivista.
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Poi
venne il momento in cui furono coinvolti direttamente i musicisti, i critici e
gli operatori del settore, ed avvenne per la prima volta grazie a Pino Candini
che aprì l’inchiesta, sempre sulle pagine di Musica Jazz, nell’aprile 1956,
intervistando Giampiero Boneschi, Gil Cuppini, Rodolfo Bonetto, Roberto Capasso,
Franco Fayenz e Livio Cerri, protraendo il dibattito nei mesi di maggio e
giugno in cui registrò le opinioni di Attilio Donadio, Gianni Basso, Arrigo
Polillo, Berto e Franco Pisano, Oscar Valdambrini, Carlo Loffredo e Lilian
Terry, per concludere l’analisi nel numero di agosto 1956, grazie alle
impressioni di Piero Umiliani, Aurelio Ciarallo, Carlo Peroni, Adriano
Mazzoletti e Alessandro Protti.
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Ma
forse il lavoro più completo in merito è quello nato dalla volontà di Enrico
Cogno, che nel 1970 realizzò un intero libro dal titolo “Jazz Inchiesta
Italia”, edito dai tipi della Cappelli di Bologna, unico nel suo genere e,
purtroppo, fuori catalogo da diversi anni.
La completezza del lavoro non si deve esclusivamente alla fogliazione maggiore del libro rispetto agli articoli citati, ma più al taglio che Cogno seppe dare all’opera, sfruttando l’energia e l’acquisita consapevolezza degli uomini del jazz, che mai come negli anni Settanta fu palese e spontanea nei loro pensieri, quanto nella loro musica.
La completezza del lavoro non si deve esclusivamente alla fogliazione maggiore del libro rispetto agli articoli citati, ma più al taglio che Cogno seppe dare all’opera, sfruttando l’energia e l’acquisita consapevolezza degli uomini del jazz, che mai come negli anni Settanta fu palese e spontanea nei loro pensieri, quanto nella loro musica.
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Nel
libro di Cogno la lista dei nomi del jazz si allunga notevolmente, ed ora è
quasi completamente rinnovata nelle presenze di Enrico Intra, Giorgio Gaslini, Eraldo
Volonté, Enrico Rava, Giorgio Albertazzi, Franco D’Andrea, Alberto Rodriguez, Giorgio
Azzolini, Franco Tonani, Giovanni Tommaso, Franco Pecori, Giorgio Buratti,
Enrico Maria Salerno, Claudio Lo Cascio e Mario Schiano, tra gli altri.
Nel centro dell’inchiesta troviamo anche «la gente», come disse Enrico, non gli appassionati-abbonati del primo sondaggio, non gli uomini di cultura blasonati e trasversali al jazz, ma le persone vere: gli impiegati e gli studenti, un vigile urbano ed una fioraia, l’operaio metalmeccanico ed un perito elettronico e poi il macellaio, il tranviere, la cassiera, il telefonista… un lavoro interessantissimo ed unico, e forse per questo non più ristampato.
Nel centro dell’inchiesta troviamo anche «la gente», come disse Enrico, non gli appassionati-abbonati del primo sondaggio, non gli uomini di cultura blasonati e trasversali al jazz, ma le persone vere: gli impiegati e gli studenti, un vigile urbano ed una fioraia, l’operaio metalmeccanico ed un perito elettronico e poi il macellaio, il tranviere, la cassiera, il telefonista… un lavoro interessantissimo ed unico, e forse per questo non più ristampato.
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Tornando
a Musica Jazz, anche Gianfranco Salvatore utilizzò la forma dell’inchiesta per
sviluppare la seconda parte di un dossier su «jazz e didattica», pubblicato nel
gennaio e febbraio 1984, invitando ad intervenire sette jazzisti italiani quali
Bruno Biriaco, Tullio De Piscopo, Franco D’Andrea, Claudio Fasoli, Giorgio
Gaslini, Enrico Pieranunzi e Bruno Tommaso. Ma restò un episodio isolato.
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Infatti
dobbiamo arrivare al 1988, quando Maurizio Franco propose un nuovo ed organico
dibattito, «Jazz italiano: tra crescita e ritardi», sempre sulle pagine di
Musica Jazz. Una vera e propria tavola rotonda, condotta dal critico e dal
direttore dell’epoca, quel Pino Candini che aveva già mostrato il suo interesse
per le inchieste, in cui ritroviamo alcuni autorevoli senatori di questa
musica, come Gianni Basso e Giorgio Gaslini, un nuovo alfiere come
l’inestimabile Franco D’Andrea, una giovane leva come Flavio Boltro ed un
imprevedibile trait d’union tra
queste ultime due generazioni musicali, come Guido Mazzon.
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L’articolo
è molto interessante nella sua forma, anche perché anziché usare la forma
dell’intervista singola poi raccolta in lavoro collettivo, come avvenne per il
libro di Cogno, ci permette di assistere ad un vero botta e risposta tra i
partecipanti, attraverso il quale le impressioni degli uni influenzano
inevitabilmente il contenuto esposto dagli altri, mostrando le diverse
sfaccettature del pensiero singolo ed offrendo nuovi percorsi comuni al
dibattito.
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Le
domande principali indagavano lo stato di salute del jazz suonato nella nostra
penisola, l’annosa integrazione nel panorama internazionale, le problematiche
relative alla sfera lavorativa, i rapporti con la critica ed i futuri propositi
auspicabili dagli ospiti. Per le risposte, potete sfogliare da soli il dossier a questo link.
Maurizio
Franco proseguì idealmente il tema nell’anno successivo con «Jazz italiano: il
momento della verità», che vedeva questa volta coinvolti i pensieri di Paolo
Damiani, Enrico Pieranunzi, Paolo Fresu, Maurizio Giammarco, Roberto Ottaviano
e Bruno Tommaso.
Qui
l’intervistatore si spingeva sui temi estetici della definizione di “jazz
italiano”, riprendeva le problematiche lavorative con focus sulla quotidianità
e sull’esclusione dei nostri da molti grandi festival estivi, sull’iperproduzione
discografica sbocciata sul finire degli anni Ottanta e, nuovamente, sul
rapporto con la critica.
Franco ha continuato in seguito ad approfondire il tema dei dibattiti, scavando in argomenti trasversali come «scrittura e improvvisazione», nell’aprile del 1993, con Enrico Intra, Giovanni Tommaso, Gianni Bedori, Claudio Fasoli, Claudio Angeleri ed Umberto Petrin ed in quello più ristretto sul «sax tenore», nel marzo 1995, con Gianni Basso, Maurizio Giammarco, Pietro Tonolo, Michele Bozza ed un ospite straniero, ma di casa in Italia, Michael Rosen.
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Poi,
secondo le mie ricerche, a cavallo del secondo millennio nessun tema fu più
sviluppato attraverso l’inchiesta, come se i critici italiani avessero bollato
il dibattito come cosa noiosa e vecchia o come se i musicisti del nostro paese,
ora travolti da una più vasta visibilità, non avessero più il tempo e le
intenzioni di discutere apertamente della loro situazione.
Resistevano solo le animate chiacchiere sui risultati del più noto referendum nazionale, del dopo Top Jazz per intenderci, e questo la dice lunga sui nuovi modi di partecipare agli eventi abbracciati nel nostro paese, dove solo le mere analisi di una classifica riescono a risvegliare i sopiti animi di partecipazione collettiva.
Resistevano solo le animate chiacchiere sui risultati del più noto referendum nazionale, del dopo Top Jazz per intenderci, e questo la dice lunga sui nuovi modi di partecipare agli eventi abbracciati nel nostro paese, dove solo le mere analisi di una classifica riescono a risvegliare i sopiti animi di partecipazione collettiva.
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Infatti,
quasi un anno fa, restai molto colpito dall’inchiesta di Enrico Bettinello
sui «collettivi jazz: tra innovazione ed ardua visibilità», pubblicata su Musica Jazz. Non tanto per la
nuova riproposta di una modalità di critica rara e decisa, ma soprattutto dal tentativo,
di un giovane uomo del nostro panorama culturale, di affrontare il tema
direttamente alla fonte.
Qui l’autore intervistava alcuni musicisti che parlavano a nome dei collettivi che rappresentavano, nello specifico El Gallo Rojo, Improvvisatore Involontario e Franco Ferguson, chiedendo il loro parere sul perché gli stessi collettivi presenti sulla scena nazionale trovassero così poco riconoscimento nei festival e nelle rassegne più famose.
Qui l’autore intervistava alcuni musicisti che parlavano a nome dei collettivi che rappresentavano, nello specifico El Gallo Rojo, Improvvisatore Involontario e Franco Ferguson, chiedendo il loro parere sul perché gli stessi collettivi presenti sulla scena nazionale trovassero così poco riconoscimento nei festival e nelle rassegne più famose.
Come
dicevo restai colpito ma, allo stesso tempo, rimasi
deluso del poco spazio di sviluppo concesso ad un argomento tanto complesso ed
importante.
Per
questo saluto con vera partecipazione il nuovo dibattito proposto da Enrico
sulle pagine di All About Jazz, « Inchiesta esclusiva: perché nei cartelloni dei Festival mancano spesso alcuni musicisti italiani? », dove Bettinello incontra Piero Bittolo Bon, Silvia Bolognesi, Paolo Botti, Francesco Cusa, Francesco Diodati, Nicola Fazzini, Pasquale Mirra, Fabrizio Puglisi, Fulvio Sigurtà e Daniele Tittarelli, ponendo
loro una serie di domande, perlopiù su temi prettamente lavorativi, che
dovrebbero affascinare e, davvero, far riflettere tutti gli operatori che girano intorno al
jazz, tanto quanto le risposte ottenute dai musicisti stessi.
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Per
questo apprezzo e condivido la modalità di racconto di Enrico Bettinello, che
invece di ristampare i consueti pensieri dei soliti noti, dona voce a quelle
spigolature più sotterranee ed interessanti del visibile, perché invece di
girare intorno al tema, evitando domande scomode per lasciare in pace gli
animi, affronta l’argomento vis-à-vis.
Perchè, secondo me, anziché dare la colpa alla solita crisi, questa musica ha davvero bisogno di nuova linfa, da entrambi i lati del palcoscenico, a prescindere se sia giovane o meno, ma che sia energia curiosa e coraggiosa come la sana analisi deve essere, specialmente quella riferita ad una musica come il jazz, che ha nella scoperta e nella considerazione dell’imprevisto la sua radice originaria.
Perchè, secondo me, anziché dare la colpa alla solita crisi, questa musica ha davvero bisogno di nuova linfa, da entrambi i lati del palcoscenico, a prescindere se sia giovane o meno, ma che sia energia curiosa e coraggiosa come la sana analisi deve essere, specialmente quella riferita ad una musica come il jazz, che ha nella scoperta e nella considerazione dell’imprevisto la sua radice originaria.
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«definire
in modo sistematico ed universale è infatti impossibile. Resta solo la
possibilità di descrivere o di compiere valutazioni relative, fondate su una
premessa ideologica o politica. Ma per far questo occorre lo spazio necessario
per svolgere, in modo il più possibile chiaro, un discorso che, coinvolgendo
problemi di estetica, di comunicazione, di linguistica ed insieme di
psicologia, di sociologia ed anche di politica, possa essere autenticamente
critico; diventi quindi uno strumento utile per il giudizio della massa dei
fruitori, e non una opinione impressionistica, generica, isolata, espressa alla
buona o magari con pretese d’importanza. Anche parlare del cosiddetto jazz
italiano, in termini valutativi, comporta le stesse difficoltà definitorie. Per
questo motivo trovo utile fare un discorso di pura testimonianza, un discorso
in cui il critico diventa partigiano e militante così com’è il musicista.
[…] vi è una colpa nella critica italiana, nei confronti dei musicisti, che difficilmente può trovare scusanti. Non è una critica militante, capace di affiancarsi alle esperienze di un determinato gruppo di musicisti, condividendole, tentandone una teorizzazione ed una spiegazione, ed insieme proponendo linee varianti o indicazioni di ricerca.»
[…] vi è una colpa nella critica italiana, nei confronti dei musicisti, che difficilmente può trovare scusanti. Non è una critica militante, capace di affiancarsi alle esperienze di un determinato gruppo di musicisti, condividendole, tentandone una teorizzazione ed una spiegazione, ed insieme proponendo linee varianti o indicazioni di ricerca.»
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Così
Alberto Rodriguez cercava di rispondere alla domanda “che cos’è il jazz”
postagli da Enrico Cogno più di quarant’anni fa, ed è curioso notare come ancor
oggi, nonostante le possibilità d’interagire sui “nuovi media”, argomenti come
quello proposto da Bettinello su AAJ, e riportato anche su alcuni blog amici a carattere jazzistico,
non raccolgano i dovuti commenti, che invece si sprecano in loop sulle
tematiche relative alla questione se Umbria Jazz faccia ancora del jazz, sull’autorevolezza dei vari critics poll o sulla superiorità degli afroamericani rispetto agli altri abitanti dei confini del mondo del
jazz.
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Credits:
Collective Orchestra
Label: PDU
Catalog#: Pld.A 6051
Format: LP
Country: Italy
Recorded
Catalog#: Pld.A 6051
Format: LP
Country: Italy
Recorded
February 3rd &
4th, 1976
Guido Mazzon (trumpet),
Massimo Urbani (alto sax),
Edoardo Ricci (alto sax),
Giancarlo Maurino (soprano sax),
Sandro Cesaroni (tenor sax, flute),
Danilo Terenzi (trombone),
Roberto Bellatalla (bass),
Roberto Del Piano (fender bass),
Pasquale Liguori (drums),
Filippo Monico (drums),
Gaetano Liguori (piano)
Tracklisting:
Part One :
Collective Suite - 21:38
Part Two :
Nuova Resistenza - 18:47
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Art by Diego Rivera
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Su Musica Jazz lo "spazio di sviluppo" c'era e sempre ci sarà.
RispondiEliminaEvidentemente Enrico Bettinello ha ritenuto più opportuno proseguire la sua inchiesta sul web e non su Musica Jazz. Non lo sapevo, perché altrimenti avrei ospitato pure questa seconda parte.
Nessun problema da parte mia, ci mancherebbe; ognuno scrive dove crede meglio. Resta il fatto che MJ è aperta a qualunque tipo di contributo, da me sollecitato oppure spontaneo; non m'importa niente di averlo chiesto in prima persona, basta che il materiale abbia un senso (e sia scritto decorosamente).
Musica Jazz esiste, ha 70 anni ma è sempre lì. Chi vuole scriverci può farlo, basta che mi scriva una mail
Ringraziando Roberto per le belle parola e l'interessante ricognizione su un genere giornalistico che evidentemente non è molto praticato nel nostro settore, tengo a precisare che Musica Jazz mi ha dato in occasione della precedente inchiesta non solo tutto lo spazio, ma anche la totale libertà di strutturarla come ritenevo più efficace.
RispondiEliminaL'inchiesta avviata ora su AllAboutJazz è altra cosa (non la seconda parte di quell'inchiesta, anche se ne riprende alcuni temi), una sorta di esigenza quasi "instant" che mi è nata dall'insofferenza provata sia dai continui commenti e lamentele dei musicisti nei social networks, sia dall'evidenza data dai cartelloni.
Per dimensioni, possibilità di aggiustamenti in corsa e rapidità di pubblicazione ho ritenuto il web più idoneo, tenendo conto che tra la mia mail con le domande ai musicisti e la pubblicazione della prima puntata sono passati a malapena 10gg (tempistica impossibile per qualsiasi rivista cartacea).
Ora è in lavorazione la seconda parte, con le domande (e si spera) le risposte ai direttori artistici, sia quelli direttamente interpellati, sia altri.
Spero presto di pensare altre inchieste anche per Musica Jazz (così come ne ho scritte per il Giornale della Musica in questi anni)! Stay tuned!
Enrico Bettinello