domenica 4 luglio 2010

Soffiare sul Fuoco - Intervista a Roberto Ottaviano

Who wants to kill Jazz? #3

Piccolo Nudo - 1964

Il discorso sui Festival Jazz e le politiche culturali delle Amministrazioni italiane, iniziato con il post sull'Open Jazz Festival di Ceglie, e proseguito con l'intervista a Gianni Lenoci, continua a dispiegare i suoi tanti aspetti, non senza partecipazione o contraddizioni in essere.

Ad esempio Francesco Martinelli, con il quale intrattengo da diverso tempo rapporti di scambio "epistolare", che ringrazio infinitamente per mettere a disposizione la sua esperienza e per indicarmi sempre "altre" strade, nonostante la sua partecipazione ed il malessere nel vedere un'altra creazione culturale dissolversi sotto le maglie dei mancati investimenti, mi dice:
« considero un errore da parte degli organizzatori di festival il non costituire una propria associazione che gestisca il festival su commissione degli enti locali. In questo modo ci si consegna mani e piedi legati ai politici dell'ente gestore, precludendosi allo stesso tempo la possibilità di fare il festival con risorse proprie, accedendo ad altri fondi (regione, CEE, privati) e non traendo nessun insegnamento nè dalla lezione dei  festival come quello di Ruvo (ultimo analogo esempio  in ordine di tempo) nè da quella del tradizionale associazionismo del movimento operaio e sindacale nè da quella dei collettivi di musicisti ancora operanti (LMC, AACM) che per usare l'espressione di un grande e dimenticato pugliese, Giuseppe Di Vittorio, sono riusciti a fare la mossa del cavallo »

In effetti, a mio parere, questo apre ad una nuova via di ragionamenti, legati alla forza di una proposta ed alla salvaguardia della propria idea che deve essere si condivisa, ma non ceduta, perchè una volta  possono essere le istituzioni locali, un altra un premier o vicepremier di turno e, un'altra ancora, un investitore privato che guarderà al bilancio anzichè al programma.

Nel frattempo le adesioni sono aumentate con interventi di Massimo Barbiero (la prossima intervista), Stefano Maltese, Pasquale Innarella, Cavallanti & Tononi e Luca Aquino, che ha dato piena partecipazione, nonostante il suo nome figuri nel cartellone del Festival snaturato di Ceglie e gli interventi si esprimono sempre di più in un ambito globale, con una forza incendiaria dilagante, come questo che segue.

Testa d'uomo (Diego) - 1961

"Il sax è un veicolo ed il jazz è oggi più che mai un mezzo per contattare altre realtà e comunicare delle cose".

Un affermazione del genere potrebbe far pensare ad un grande Maestro come Duke Ellington, Charlie Mingus, John Coltrane o Miles Davis, perché hanno comunicato attraverso il jazz senza farsi mai mettere il bavaglio dalle etichette, ed invece è la sintesi di Roberto Ottaviano, sassofonista, compositore e didatta, e la dice lunga sulla statura della sua figura in seno al panorama musicale di questo Paese.


Attivo dai primi anni Ottanta, Roberto Ottaviano ha debuttato nel 1983 con l'album "Aspects" in cui si dimostra già maturo per incidere alcuni brani in solo e, negli altri, si circonda di personalità fortemente significative della "New Way of Italian Jazz" come Giancarlo Schiaffini e Carlo Actis Dato.

Ma in quello studio nel pieno centro di Bari, città dove Roberto è nato il 21 dicembre del 1957, tra le bianche e basse case del porto, il sassofonista ebbe l'intuizione di volere anche un giovane e sconosciuto trombettista, che apporterà un notevole contributo alla diffusione del jazz del nostro paese:
«Per me era la prima volta in uno studio di registrazione e fu in quell'occasione che per la prima volta mi ascoltai. Ascoltando dalla regia mi resi conto con piacere e stupore non solo che il mio timbro era sufficientemente caldo ed umano, ma che si amalgamava bene con quello degli altri strumenti suonati da colleghi certamente più esperti di me. La musica di Ottaviano era molto libera e avanzata rispetto a quello che avevo fatto fino ad allora. Vedevo i miei colleghi e Roberto annuire all'ascolto del tema che avevo appena esposto o dell'assolo, come se fossi stato un solista navigato capace di camminare sull'acqua o, peggio, sui carboni ardenti sopra i quali avevo l'impressione di trovarmi.» *

Diego seduto mentre legge il giornale - 1952/53

Nel suo primo disco, in perfetto equilibrio tra scrittura ed improvvisazione, Roberto Ottaviano sembra voler racchiudere tutte le sue future intenzioni ed elabora già da allora la sua poetica.
Le particolari combinazioni delle varie personalità musicali, in sintonia o in antitesi con il suo lessico personale, e la ferma volontà di intervenire negli ambiti cosiddetti tradizionali, per aggiornarne la struttura dalle fondamenta, daranno vita ad un dialogo nuovo, avanzato ed inaudito rispetto al jazz italiano degli anni Ottanta, che delineerà la cifra stilistica del sassofonista barese degli anni a venire.

Già dal suo esordio, quindi, verrà considerato come una delle voci europee più interessanti, uno dei profili strumentali più significativi, un uomo curioso ed atipico nel panorama nostrano, che vive la sua progettualità artistica lontano dalle mode, con vera poesia, con coraggio e coerenza.
Roberto Ottaviano nasce jazzman, insomma.


Poi gli incontri con i suoi mentori, come Lester Young e John Coltrane amati sui dischi, ma anche Evan Parker e Jimmy Giuffre con i quali partecipa ad alcuni workshop e, su tutti, Steve Lacy, con il quale approfondirà lo studio del soprano, nel periodo '80 -'86 tra Parigi e l'Italia. Contemporaneamente sente il bisogno di una formazione "pura", ed inizia ad approfondire la propria tecnica strumentale con il grande virtuoso classico Federico Mondelci.

Nei suoi trent'anni in jazz, Ottaviano non incide moltissimo a proprio nome «perché in un mondo che ha perso l'intervallo, che non conosce più l'attimo per fermarsi a riflettere su ciò che accade, io preferisco "scendere"» dice, ma in tutte le sue formazioni Roberto non ha perso di vista il "cuore del problema", cioè quello di utilizzare la sua Arte per comunicare una visione onesta, creativa, attuale e libera dai condizionamenti, sia nei gruppi a proprio nome come i Praxis, Six Mobiles, Pow Wow, Parabola, Koinè, Icaro o Pinturas sia nei progetti nei quali appare, come la MinAfric Orchestra di Pino Minafra, i Nexus di Cavallanti & Tononi, la Mitteleuropa Orchestra di Andrea Centazzo, il quintetto "Africa Mood" con il batterista sud africano Louis Moholo.

La Piazza - 1948

In questi anni ha collaborato e condiviso il palcoscenico, e la propria passione, con alcuni fra i più importanti musicisti americani, europei ed extraoccidentali, molto vari per stile e concezione ma ugualmente spinti dalla stessa aspirazione inventiva.

Alcuni fra questi: Dizzy Gillespie, Art Farmer, Mal Waldron, Pino Minafra, Reggie Workman, Andrew Cyrille, Albert Mangelsdorff, Chet Baker, Enrico Rava, Tomasz Stanko, Georg Grawe, Franz Koglmann, Barre Phillips, Keith Tippett, Giorgio Gaslini, Paul Bley, Steve Swallow, Irene Schweizer, Palle Danielsson, Kenny Wheeler, Ran Blake, Henry Texier, Paul Bley, Aldo Romano, Myra Melford, Tony Oxley, Misha Mengelberg, Han Bennink, Francis Bebey, Trilok Gurtu, Lamina Kontè, il "Singing Drums" di Pierre Favre.

Inoltre, dal 2005, Roberto Ottaviano è direttore artistico del Festival Bari in Jazz, e vorrei partire proprio da qui con le domande.

Ritratto di Mme Marguerite Maeght - 1961

JfI: Roberto, cosa spinge un musicista a tenere vivo un Festival jazz nell'Italia di oggi?

RO: Ovviamente rispondo per me. Sento come una specie di impegno morale nei confronti di tutti coloro che hanno contribuito a creare questa meravigliosa sintesi di arte ed umanità, di modernità “ecologica”, di rispetto ed evocazione dello spirito degli antenati, di bellezza tangibile e stimolo intellettuale. Naturalmente c’è poi l’esigenza di rendere più vivibile lo spazio intorno a me.


JfI: In una città del nostro bellissimo sud è più difficile?

RO: Tutto qui è più difficile. Paradossalmente solo i frutti della natura, seppur coltivati con sacrificio, crescono prepotentemente anche se vengono spesso distrutti perché sacrificati alle logiche del “mercato” (come le coltivazioni di pomodori nel Brindisino, etc…).

L’aspirazione ad una evoluzione dinamica e la responsabilizzazione delle Amministrazioni pubbliche, la lungimiranza mecenate di alcune imprese private e la sete di cultura delle comunità, sembra che da noi non riescano proprio ad attecchire.

Ritratto di James Lord - 1964

JfI: I contributi della Provincia o del Comune sono importanti per un Festival del genere, dove la progettualità si slega dagli obiettivi di rientro del profitto e dove lo spettacolo è offerto gratuito a tutti?

RO: Sono essenziali. La “politica” culturale può certamente orientarsi verso scelte diverse, diversi contenuti, ma tuttavia non può esimersi dall’occuparsi, per l’appunto, di cultura. L’idea di molti nostri amministratori di fare cultura attraverso la realizzazione di “eventi” che hanno come semplice equazione il fatto di riempire le piazze e far ballare le folle, è demagogica e falsa. A destra e a sinistra.

Lungi da me voler dare definizioni assolute di cultura, ma ritengo che il compito di una Amministrazione pubblica sia quello di sostenere in tutti i modi quelle iniziative che servano a far crescere una comunità, a creare degli scambi attivi, a mettere in moto dei processi individuali e collettivi attraverso i quali i cittadini possano diventare migliori e migliorino le relazioni personali ed interpersonali.
L’intrattenimento è un'altra cosa.
Lo spettacolo che possiede già una sua forte visibilità ed un indotto commerciale non ha bisogno del sostegno delle Istituzioni. Né tantomeno artisti, agenzie ed associazioni che li promuovono.

Annette col maglione rosso - 1961

JfI: Ma è possibile che in questo paese ci stiamo abituando all'idea che le istituzioni e la ricerca culturale siano agli antipodi?

RO: In passato la cosidetta classe politica che popolava le istituzioni era complessivamente di diverso profilo. Tra le sue fila c’erano più persone che provenivano da contesti di una certa levatura intellettuale. Il “Berlusconismo” è stata una svolta epocale che ha travolto e devastato tutto generando l’illusione di un annientamento dei regimi, creandone di fatto uno solo più forte, trasformando l’informazione, la formazione, i desideri, le necessità e capovolgendo i valori.

A me è capitato di sentire una affermazione di un Assessore che volentieri “auspicava” la fuga di questi cervelli rompicoglioni. A questo punto è quindi naturale che la “ricerca culturale” sia diventata sinonimo di “fanullonismo”. Al dramma poi aggiungiamo la beffa che la Berlusconite ha contagiato anche la sinistra che nello pseudo tentativo di emanciparsi da questa malattia ne ha contratto invece tutti i sintomi. Il “cazzeggio” impegnato o l’impegno nel cazzeggiare, certi feticci strumentalizzati su cui varrebbe la pena di effettuare qualche studio antropologico (I Blues Brothers, i Balcani, la Taranta e la musica brasiliana, il Mediterraneo…….).

Molti di coloro che ci hanno preceduto, e che incalzavano i politici, si sono ritirati a vita privata, alcuni fra noi cominciano ad essere davvero stanchi e diradano il loro impegno, le nuove generazioni sono pericolosamente divise tra quelli che si allattano alle mammelle di “Amici” e “Uomini e donne”, Corona e Belèn, i fratelli Vanzina, i vari Millionaire , e tra quelle che ritengono davvero, aimè, che Renzo Arbore ed il suo Sud populista e da cartolina, la Dandini, Veltroni, Vasco e MTV, siano una possibile alternativa.

Gli antipodi cui fai riferimento dunque stanno diventando sempre più una distanza cosmica.

Ritratto di Jean Genet - 1957

JfI: Tu hai fatto tournée in diverse parti del mondo, e collabori con musicisti internazionali. Questo ottuso atteggiamento di chi detiene il potere, è "una storia tutta italiana"?

RO: Fino a qualche tempo fa credevo di sì ma debbo dire che, confrontandomi con amici e colleghi d’oltralpe e d’oltreoceano, il fenomeno sta diventando globale.
Scene come quelle dei vari G8 e G20 di recente, in cui i potenti e le loro “corti” sembrano sempre più “staccati” dal mondo reale, i loro privilegi che crescono mentre il pianeta va in malora e con esso degrada tutto, sono un brutto segno.

La maggioranza sopravvive, si adatta, prende le misure e si accontenta di ciò che sembra indispensabile (ovvero ciò che la Televisione gli dice che è indispensabile) aspirando al “Bingooooo!!!!”, mentre una minoranza vive in un eterno golden resort.

with Reggie Workman & Andrew Cyrille

JfI: Secondo te, come mai pochissimi musicisti italiani hanno accolto questa discussione? Non dovrebbero essere loro i primi ad avere interesse nella salvaguardia della "biodiversità" nel jazz?

RO: In verità non è che nel nome del Jazz siamo tutti uguali o simili. Anzi. Molti vivono una idea del Jazz che è una continua Swing Era. Una euforia costante e cialtrona in cui si afferma una diversità dagli altri ma in fondo è solo l’ostentazione di uno status differente, per non mischiarsi, risultando invece molto “omologati”. Questi non sanno neppure quali siano state le ragioni che hanno spinto Ellington a scrivere “Money Jungle” o Roach “Freedom Now”, Coltrane “Alabama” o Mingus “Haitian Fight Song”. Per loro la musica non serve a far discutere, serve solo ad avere un “look”.

Pure alcuni di quei musicisti che in anni non sospetti erano attivisti di un Jazz, che magari non ritenevano dovesse essere “veicolo sociale”, e che però incarnava un pensiero forte, oggi dichiarano che i tempi sono cambiati. Che non serve più essere “contro” a tutti i costi. Che la rivoluzione non interessa più a nessuno. Di questo passo non solo il sistema ci fagociterà nel suo mortifero humus, ma non avremo più domande e la musica sarà solo una grande unica ed appiattita risposta.

Ritratto di Caroline - 1964

JfI: C'è stato un momento in cui l'impegno sociale e la ricerca culturale era voluta e sentita da tutti (penso agli anni Settanta). Poi c'è stato un declino dei sogni e l'affermazione della mercificazione di tutti i valori (ed intendo gli anni Ottanta). Ora c'è questa frattura, che sembra indolore, che in realtà nasconde la malattia di non pensare a come stiamo ed offre la cura nel fare i soldi con un gratta&vinci o con uno scoop pecoreccio.
Esiste ancora una speranza nell'alchimia culturale del jazz?

RO: Credo nel valore dell’autonomia. Il Jazz mi ha insegnato questo. Proprio negli anni ’70 di cui tu parli io sono maturato come adulto con e grazie al Jazz. Anni in cui era possibile ancora ascoltare le suites del Duca e le visioni elettriche di Miles, la drammaturgia di Archie Shepp e la voce autentica e non costruita di Ella, le sperimentazioni dell’A.E.O.C. e quelle di tanti improvvisatori radicali europei. Se si recupera questa varia ricchezza e la si distoglie dal misero chiacchiericcio cabarettistico verso cui oggi, artefici molti organizzatori e autorità mass-mediatiche, tendono a portarlo, allora forse quell’alchimia potrà ancora funzionare ad ampio respiro. Viceversa sarà solo una bombola d’ossigeno come riserva personale per chi la praticherà.

Ritratto del Professor Corbetta - 1961

JfI: Tu, nel 2008 a Ceglie, hai riproposto il progetto JAZZERIE, con Nico Stufano, Maurizio Quintavalle e Mimmo Campanale, riunendo quello storico gruppo dopo vent'anni. Qual'era il senso di quell'operazione?

RO: Pierpaolo Faggiano ha creduto nell’operazione ripropositiva a distanza di una vera e propria epoca dall’origine di quel progetto, una specie di omaggio ad un tipo di “proto-gruppo” del genere in Puglia. Per me è stata l’occasione per ritrovare vecchi amici con i quali abbiamo condiviso un periodo della nostra storia musicale, ma niente di più. Credo di essermi espresso meglio e con maggiore identificazione in altri contesti.


JfI: Che ricordo hai di quel Festival e di quella cittadina?

RO: Per me il Ceglie Open Jazz Festival era una specie di roccaforte per una certa progettualità musicale. Come lo sono stati l’Europa Jazz Festival di Noci ed il Talos di Ruvo. Come per quelli comunque ci volevano degli amministratori coraggiosi. Senza, era purtroppo prevedibile che fosse destinato ad essere spazzato via dal 7° cavalleggeri, segregando i suoi animatori all’interno di una riserva. Al suo posto ovviamente, altrettanto prevedibile, un bel festivalino stelle strisce e spaghetti.

Secondo me bene farebbero gli artisti interpellati a disertare per rispetto a ciò che il Festival è stato (ma si sa come spesso siano ricattabili anche con un piatto di lenticchie…..), e meglio farebbero gli Amministratori a non vituperare un progetto che “è stato” e, se proprio non sanno farne a meno, ideare una cosa completamente diversa. E’ sempre più facile racimolare consenso immediato piuttosto che rimboccarsi le maniche e fare un lavoro di educazione e stimolo della curiosità, serio ed impegnativo.

La storia non è nuova e ormai facciamo la conta tra i vari festival che subiscono questa sorte in Italia. Il fatto è che il Ceglie Open Jazz Festival era già una riserva, con sostegni risicatissimi.

La madre dell'artista - 1937

JfI: "Un Dio Clandestino", «sempre più nascosto e costretto a rivelarsi in condizioni di grande difficoltà», come dici tu, è il titolo del tuo ultimo lavoro. Titolo tristemente attuale ma che indica un riferimento, forse una speranza. Com'è il Dio al quale ti rivolgi, uomo di oggi e musicista di jazz?

RO: Un Dio che si interroghi una volta di più e non una di meno. Che sappia dare il peso alle parole ma ancora di più ai fatti. Che trovi il tempo senza perderlo. Che sappia accarezzare ma che sappia anche menare le mani. Un Dio che non si atteggi o che si attribuisca a tutti i costi un ruolo ma che sappia vivere il suo tempo in pace con gli altri cercando sempre più di capirne le ragioni e che offra il suo spazio per stimolare le riflessioni. Un Dio che partecipi alle Jam Sessions!

Ritratto di Yanaihara - 1958

JfI: Non ho mai pensato che una musica come il jazz potesse morire, e tutte le volte che l'ho sentito o che l'ho letto, la musica che amo ha sempre dimostrato una vitalità inaspettata. Ma di questi tempi...
Tu pensi che si debba iniziare a scavare qualche fossa?

RO: Oggi più che mai. Arriva un momento dell’esistenza in cui o stai da una parte o stai dall’altra. Devi prendere posizione, se hai preso coscienza…

Spazi dialettici quanti ne vogliamo, ma poi dobbiamo dichiararci. Non possiamo continuare a vivere nell’opportunismo e spacciare una cosa per un'altra. Insieme al libero mercato ci ritroviamo questa idea ambigua che ci deve essere spazio per tutti, che tutta la musica è bella, che basta un sax e l’improvvisazione.

Cominciamo col pretendere maggiore rigore ed informazione. Carta stampata, radio e opinion leaders che blaterano di cose che neanche conoscono, fanno danni irreparabili e dipingono un mare anonimo in cui si annega facilmente.

Caroline - 1961

JfI: La tua oculata produzione ci ha abituati a "frutti" pregiati, come un ottimo vino d'annata. Ci sono progetti speciali nel tuo immediato percorso artistico ed evolutivo?

RO: Sto per fondare una mia etichetta discografica. Visto che fino ad oggi non sono riuscito a trovarne una che potesse davvero svolgere un lavoro soddisfacente dal punto di vista degli investimenti sulla promozione e della diffusione, tanto vale che ci provi in proprio. Molti artisti si stanno orientando in tal senso e del resto tanti altri lo hanno già fatto in passato (vedi ad esempio Paul Bley e Ornette).
Il primo disco potrebbe essere un lavoro che registrerò a New York il prossimo autunno.

L'uomo che si rovescia - 1950

JfI: Roberto, grazie per il tuo tempo e, soprattutto, per la tua musica.

RO: Grazie a voi per “soffiare sul fuoco”……


* Paolo Fresu " Musica Dentro " - Feltrinelli, Milano - ottobre 2009

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Tutte le immagini sono di
Alberto Giacometti
1901 - 1966

"...non costruisco se non distruggendo,
non avanzo se non voltando le spalle alla meta."


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