venerdì 13 gennaio 2012

Mario Schiano - EFFETTI LARSEN_Live 1988

OVVERO, FORWARD LOOKING o ELOGIO STRIDENTE DEL CIRCUITO CHIUSO


Se davvero sul finire di questo 2012 dovesse avverarsi la profetica trasformazione radicale predetta dai Maya, mi chiedo come mai gli Inca non abbiano previsto per l’inizio dello stesso anno il decadimento della critica jazz.

Nel numero di Gennaio di Musica Jazz, Filippo Bianchi lamenta la mancanza di competenza come una delle catastrofi della società contemporanea e declina il discorso nell’ambito a lui più congeniale, ricordando che “una volta il jazz era luogo di competenza assoluta. Semmai il limite era il settarismo, magari un certo dilettantismo, ma sempre con una conoscenza accanita della materia”. Uno dei motivi espressi dall'autore come la probabile causa di questa decadenza, è l’ampliamento dell’interesse commerciale che si è sviluppato esponenzialmente sul jazz, in parallelo alla sua maggiore diffusione.

Di conseguenza,  continua il Direttore, “un gran numero di persone si sono avvicinate al jazz, in cerca di un mestiere o di buoni affari. Privi di ogni sensibilità estetica, sono arrivati in questi magri pascoli convinti di trovare l’eldorado, costretti ad immergersi, non a bordeggiare, in una musica che si mostra ostile a chi non la ama, convinti di poter importare qui concetti, regole e teoremi che magari altrove funzionano, ma sono inapplicabili ad un mondo così particolare, governato da leggi proprie, insolite, stravaganti perfino”. 


Ma c’è un altro motivo fondamentale che Filippo ci tiene a segnalare, ed è che “nel jazz, passione e competenza professionale sono inscindibili: la seconda si acquisisce in conseguenza della prima; in sua assenza è difficile comprendere sia l’oggetto, sia quanto gli si muove intorno, cioè il mercato”.

Facile direte voi, parlare così tenendo saldamente in mano le redini di una delle due sole riviste completamente dedicate a questa musica presenti sul panorama italiano. Ma Bianchi è un uomo onesto e coraggioso e ci lascia questo ragionamento come un’eredità su cui ripensare il futuro, dal momento che in fondo alla pagina ci annuncia che questo è l’ultimo editoriale che firma come Direttore di Musica Jazz.


Ora si potrebbe facilmente accusare di conservatorismo l'ex Direttore, cioè “era meglio quando si stava peggio” o di facile melanconia del suo giovanile passato a discapito della difficoltà di comprendere il mondo d’oggi, ma sarebbe un’ulteriore conferma della tesi da lui espressa (e cioè che di quello che è accaduto nel jazz non ci capite un cazzo! N.d A) in quanto tutta la sua parabola professionale è sempre stata orientata con lo sguardo avanti, come testimonia la sua decennale militanza giornalistica raccolta in buona parte ne “Il Secolo del jazz”, le sue curiose direzioni musicali testimoniate dai “Concerti di un certo discorso” per Radiotre o dalle diverse produzioni per etichette coraggiose come la ICP, la Bv Haast o la FMP, la fondazione dell’associazione internazionale Europe Jazz Network o più sinteticamente come descritta nel suo curricula.

Ma Filippo Bianchi non ha certo bisogno della mia difesa, e in effetti basterebbe guardarsi intorno per rendersi conto dell’attuale smarrimento dell’approfondimento critico a discapito dell’apparire nozionistico di tanti scritti sul jazz.


In questi primi giorni dell’anno (anno nuovo, vita nuova, appunto), è apparso un assurdo articolo, tanto curioso quanto inutile e fazioso, a firma di Alberto Contri, collezionista di dischi e di strumenti a corda, contrabbassista e chitarrista che ha suonato nella Bovisa New Orleans Jazz Band di Luciano Invernizzi e nella Swinghera di Vittorio Castelli e caro amico di Lino Patruno, che si auto incarica di raccontare una personalissima, distorta ed errata visione della storia del jazz, che potrebbe essere raccolta in una sola sua frase: “In definitiva, possiamo dire senza ombra di smentite, che il jazz è una musica italo-afro-americana”. 

Ora, forse è inutile sottolineare errori madornali come Richie Sambuka al posto di Richard Kamuca, saxofonista di Philadelphia, frutto di un probabile lapsus alcoolico, ma è impossibile tacere su affermazioni tipo “Jimmy Durante è stato il primo pianista jazz”, che non solo non è vero, ma che sembra tenda ad offuscare un aspetto fondamentale della storia del jazz, il ragtime come parte delle sue origini e tutta quella generazione di strumentisti di New Orleans, creoli e afro-americani, che diedero l’impulso al passaggio dal ragtime al jazz. Penso a Scott Joplin, a James P. Johnson, a Jelly Roll Morton ma anche a Sidney Bechet, a Freddie Keppard, a Joe “King” Oliver…

Gli italo-americani c’erano sì, ma vedere solo loro in quel crogiuolo culturale significa avere gli occhi chiusi, oltre che fare un ragionamento fazioso e revisionista.


Quindi, senza stare a fare il professorino, cosa che non mi compete e che odio, vorrei semplicemente ricordare all’autore che quando si scrive la Storia di una musica le cui radici sono l’intreccio di tante culture differenti, il problema è proprio quello di cercare le fonti e di conseguenza, assegnare le giuste origini. Insomma sig. Contri, la Storia è roba difficile e probabilmente non c’è mai stato un primo ed unico jazzista.


Altri aspetti che possono affermare la probabile profezia sconosciuta degli Inca li troviamo nello scritto di Paolo Savini Nicci, dove ad onor della più pura improvvisazione jazz si mescolano date e si scambiano ruoli e definizioni per costruire una tesi, nell’assunto pseudo-filosofico anche interessante se fosse concretamente strutturata, in cui si afferma che lo spirito dell’innovazione nasce come rediviva fenice dalle ceneri delle crisi economiche e sociali.

Ora, se si può scusare il refuso ortografico e mettiamo il caso si possa perdonare la leggerezza di paragonare il profilo musicale europeo con quello americano e fin’anche quello di accettare l’estrema sintesi dei “suoni gitani” come commento alla poliedrica e sfaccettata figura di Django, non è possibile affrontare un argomento che si nutre dei dati storici e si sviluppa sulla prospettiva cronologica, intrecciando gli accadimenti sociali all’evoluzione dei contenuti culturali, sbagliando le date di partenza. Tanto meglio fare letteratura, prosa, poesia e lasciar perdere la Storia. 


Riguardo alle versioni online delle uniche riviste di jazz italiano, non ho news importanti rispetto a quelle che si sono presentate sulle pagine di Mondo Jazz.
Musica Jazz fin'ora continua ad usare la rete per riproporre tematiche già presenti sul giornale, e questo è estremamente limitativo. Jazzit ha iniziato ad aggiungere contenuti "altri", esclusivamente realizzati sottoforma video.

Entrambe le riviste lasciano sempre più spazio al e-commerce e nessuna s'impegna ad esplorare i nuovi aspetti, ed usufruire delle tante potenzialità, della comunicazione digitale, nemmeno con la funzione primaria, intesa come multimedialità della proposta, con link esterni ai vari testi, downloading, immagini aggiuntive, sampler e quant'altro.

Nelle due riviste online è assente una sezione dedicata all'analisi ed alla discussione del mondo del web e nessuna prende in seria considerazione lo scambio, inteso come comunicazione multilaterale, che è il valore aggiunto che davvero può fare la differenza. Mi trovo spesso a rileggere le famigerate "lettere al direttore", che per anni hanno offerto a Musica Jazz il suo lato più frizzante, vivo ed interrelazionale e penso che il web-log potrebbe rappresentare, oggi, la sua forma compiuta per eccellenza.

Ora, se questi spunti nascono da letture online, c’è da dire che la pubblicistica di settore non esula dagli stessi ragionamenti.


Prendiamo il caso dell’immenso lavoro di Adriano Mazzoletti sul Jazz in Italia. Nozionistico ma sicuramente documentatissimo, verrebbe da dire. Utile allo studioso e necessario all’appassionato per districarsi in un vasto panorama fin’ora poco documentato. Difetto immediato, rispetto all’impegno richiesto dalla poderosa lettura, è il troppo sottile fil-rouge di collegamento in termini di racconto, che a volte rischia di spezzarsi a discapito della visione globale, sbilanciando il testo più sul versante enciclopedico che su quello letterario. La monumentale appendice di scritti rari e la sola discografia, però, vale l’acquisto.

Per cui la critica su carta è sana, direte voi, ma l’arbitraria cancellazione, da quella che verrà ritenuta sicuramente la storia ufficiale del jazz italiano, di molte personalità importanti di questa musica, fa pensare alla voluta revisione della Storia da parte dell’autore. Ad esempio, su 1600 pagine Mario Schiano è citato solo a pag.331 e semplicemente come uno dei tanti musicisti provenienti dalla città di Napoli. Eppure Schiano era attivo dalla fine degli anni Cinquanta, nei primi anni ’60 a Roma è già una figura di riferimento e nel 1966 nasce ufficialmente al Folkstudio il Gruppo Romano Free Jazz.


Nemmeno sulla sua ultima fatica, quel volume di quasi 300 pagine con più di 600 fotografie che Mazzoletti ha dato alle stampe con il titolo “L’Italia del Jazz”, Schiano è presente, come sono assenti Carlo Actis Dato, Pino Minafra, Stefano Maltese, Tononi & Cavallanti e tanti altri personaggi del jazz degli ultimi quarant’anni.
È nota l’avversione di Mazzoletti per la musica di Schiano, “ogni volta che mi vedeva era solito ripetermi: Schiano, tu non sai che cosa sia un blues” ricorda Mario nel libro intervista di Pierpaolo Faggiano. Si dovrà attendere l'arrivo di gente illuminata come Alberto Rodriguez, Stefano Arcangeli, Giampiero Cane, Francesco Martinelli ed altri della generazione successiva per una corretta lettura della sua opera, e Mazzoletti, cancellando il suo nome dalla sua storia, ci riporta di cinquant’anni indietro nell’evoluzione del pensiero musicale. Forse l’Adriano del jazz ci farà dono di un altro tomo per illustrare i cinquant’anni esclusi salla sua opera, e me lo auguro, ma ad oggi questa storia è volutamente tronca ed incompleta.


Sull’aspetto delle pubblicazioni jazz italiane, poi, non possiamo sottovalutare la questione delle traduzioni, ricollegandoci al pensiero di Filippo Bianchi in cui si afferma la necessità di passione e competenza professionale. Per non farla troppo lunga, citerò solo il caso del libro sul trombettista di Philadelphia, Lee Morgan, scritto da Tom Perchard e tradotto da Caterina Tonon e Virginia Virtù.
In questo testo troviamo una miriade di errori, frutto di traduzione letteraria e senza passione alcuna, che pesano inevitabilmente sull’insieme della struttura del libro, facendo perdere il gusto della lettura stessa. “Chord changes” diventano i “cambi di corda”, “3 beat” diventa “di tre battute”, e supremamente la “struttura AABA” diventa “struttura LaLaSiLa”; “recording date” è tradotto “appuntamento di registrazione”, “sat in” come “si mise a sedere”, “booking agent”, agenzia di prenotazione, “reed” sta per linquetta, “cornet virtuoso” sarebbe “virtuoso di cornetto”, mentre "horn" è sempre tradotto “corno”. 

Ora, se è vero che abbiamo un patrimonio inesplorato nella possibile traduzione italiana di testi stranieri, è anche vero che inventarsi una nuova lingua non giova alla nostra cultura, se non quando è davvero ricca di passione e competenza.


Sulla recensione del libro di Alyn Shipton, Nuova storia del jazz (Einaudi), a firma di Giuseppe Fiorentino per l’Osservatore Romano, non trovo altre parole che invocare davvero la profezia dei Maya o una pioggia di fuoco, un’invasione di cavallette o di punteruoli di tutti i colori, perfino il ritorno del nano prodigio con le sue ballerine in perizoma potrebbe andar bene, fin'anche la morte di bianco vestita, tutto, vi prego tutto, fuorchè questa oscena stupidità.


Insomma, forse l’abbandono del Direttore di Musica Jazz ha scatenato una serie di eventi a catena che sarà difficile contrastare, anche se non sono a conoscenza delle intenzioni di come proseguirà la storica rivista, alla quale faccio i miei migliori auguri, se non altro perché è uno dei due soli baluardi della critica jazz periodica. A questo proposito, vi voglio raccontare l’ultimo pezzetto di questa storia.

Precisamente un mese fa sono stato contattato da Luciano Vanni, direttore di JazzIt, che mi proponeva una collaborazione che non si è realizzata, e che probabilmente non si completerà mai, non tanto per “semplice” diversità dei nostri punti di vista, anzi, dal momento che ritengo la diversità utile e sana, oltre che un ottimo concime per nuovi stimoli, quanto proprio perché sembrano differenti le sensibilità, gli interessi primari e le modalità d’approccio a ciò che per me è, e resta, una vera passione.


Solo qualche giorno fa, precisamente nella data in cui ho pubblicato il post, ne ho parlato di getto, come sono solito fare essendo questo uno spazio personale in cui il jazz appare sempre riflesso e trasdotto dalla mia sensibilità, e chiudevo commentando che probabilmente sono finiti i tempi in cui i contatti tra i lettori ed i direttori delle riviste di jazz, anche semplicemente attraverso la posta del giornale, creavano nuova linfa per il futuro della critica musicale, in cui le idee contrapposte generavano nuovi contenuti, in cui c’era vera curiosità da parte di chi gestiva gli strumenti di comunicazione, son finiti i tempi, insomma, in cui la critica guardava avanti.


Ieri, 14 gennaio, sono stato nuovamente contattato da Luciano che mi ha esposto una serie di motivazioni, come verifiche a priori di disponibilità, probabili fraintendimenti su cosa intendiamo per attività, proposta ancora in progress, e per ultimo, il fatto che l’aver condiviso questo inizio di rapporto apertamente con tutti voi gli poteva creare delle difficoltà e avrebbe potuto causargli anche dei danni.

Ora, a parte il fatto che un semplice, umano contatto effettuato nel mese trascorso tra la prima proposta che avevo ricevuto da lui e la distribuzione in edicola dell’ultimo numero del magazine (non dopo il mio post…) avrebbe chiarito ogni cosa, per me sono ancora poco chiare le spiegazioni che ho ricevuto, pur se ovviamente legittime.


Ma, a prescindere dal mio punto di vista, non ho mai avuto l’intenzione di fare del male a qualcuno attraverso questo spazio, dove tento solo di esporre i miei pensieri, di sollevare qualche dubbio, di condividere per costruire, semmai, oltre che raccontare le mie emozioni.

Per cui, tiro via i dettagli di questa storia dal post e li tengo per me, per i pochi che l’hanno letta nei giorni scorsi e per Luciano Vanni, che ne è stato co-protagonista.

Al termine di questo post confermo la sensazione di sentirmi in un circuito chiuso, dove temo che finiremo tutti assordati dagli effetti Larsen autogenerati dal nostro singolo e smisurato ego.
Ci tengo anche a suggerire, con tutta la modestia che il mio appassionato diletto mi consente di avere, che senza conoscere il significato di forward looking o tantomeno i racconti della famosa profezia degli Inca, domani sarà difficile per tutti andare avanti, specialmente per chi lavora nell'industria della creatività.

Auguri!!!




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 Credits:

Label: SPLASC(H)
Catalog #: HP 09
Format: LP
Country: Italy

Recorded at Rome, Colosseo Theatre, 4 March 1988, 2nd Controindicazioni Festival.



Note that the 2nd edition of the Festival came 13 years after the 1st, held in Penne, near Pescara, in 1975. This Roman edition marked the re-birth of the Festival, still going on and one of the major forums for free improvisation in Europe (Francesco Martinelli)

Mario Schiano (alto sax),
Guido Mazzon (trumpet),
Gaetano Liguori (piano),
Lino Liguori (drums)

Tracklisting:

Side One

WE_Part 1 – 18’25”



Side Two

WE_Part 2 – 15’07”



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2 commenti:

  1. Queste riflessioni su virtù, vizi e vizietti dell'italico jazz dovrebbero far riflettere molti addetti ai lavori. Sono giunto a conclusione che l'ambiente del jazz italiano soffre dei difetti e dei problemi degli altri "luoghi sociali" del Bel Paese. Il familismo, la catena di comando gerontocratica, l'amico dell'amico...la pagnotta che calpesta gli ideali. Tutto ha poco a che fare con la musica. Eppure ci sono musicisti meravigliosi in Italia, con ego normali, simpatici anche...e creativi.

    Nota. Ci mancheranno gli editoriali di Filippo Bianchi su Musica Jazz. Erano sempre arguti, parlavano d'altro per parlare poi di jazz, d'arte e di creatività. Ponevano domande importanti e non calavano risposte dall'alto dei gradi di comando,ma riflessioni. Spesso ho avuto occasione di complimentarmi privatamente con lui per questo o quell'editoriale: ora lo faccio qui pubblicamente.
    ciao
    Franco

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