giovedì 12 novembre 2015

Kamasi Washington – The Epic _ Vero poema epico o paracula scenografia di cartone?


«Ma allora 'sto Kamasi»? è la sintesi dei tanti messaggi privati che ho ricevuto in queste ore.
  
Certo è che chi mette in piedi un disco denso, variegato e composito come questo triplo lavoro merita anzitutto il mio rispetto, tanto quanto chi finiva per primo l'album delle figurine Panini tra gli amichetti del quartiere.

photo by Mike Park

Al primo ascolto ho avuto alcune certezze ed altrettanti dubbi:
P un groove trascinante, un'architettura maestosa, un suono moderno con il quanto basta di nostalgia, lontani lampi free di rabbia, echi black, brown and beige e la toccante scelta di due classici (Cherokee di Ray Noble e Clair De Lune di Claude Debussy), sono stati i preliminari del godimento;
P una triplice e pomposa mancanza di modestia (al limite del "chi ce l'ha più grosso"), un retrogusto freddo e celebrale ed un pizzico di sfacciata paraculaggine hanno invece lasciato in me un certo senso d'insoddisfazione, più vicino al coitus interruptus che ad un vero e grosso amore.


The Plan, The Glorius Tale e The Historic Repetition sono i capitoli di questa saga, ispirata da un sogno ricorrente con protagonista "Il Guardiano" che deve proteggere il suo territorio da coloro che cercano di sconfiggerlo e che ha preso musicalmente forma nella traccia di apertura del lavoro (Change of the Guard, appunto), i cui temi sono ripresi in tutto il triplo album. The Guard diventerà presto una graphic novel e nel box in versione vinile si possono ammirare due disegni di KC Woolf Haxton al riguardo.


«The Epic è nato grazie alla storia," dice Kamasi Washington a Phil Johnson del Independent "che ho pensato come Omerica. Io non volevo che fosse solo una raccolta di canzoni a caso, ho voluto che avessero uno scopo, e che proprio per questo avrebbero potuto essere ascoltate fino in fondo, perché in un buon racconto una cosa tira l'altra. Non ho mai pensato alle dimensioni dell'album prima della fine della storia ».


Fatto sta che, nonostante i miei sani dubbi, dopo l'acquisto dei tre CD da Blutopia, ho comunque votato "The Epic" tra i piazzati del Top Jazz '15 (tanto oramai i voti sono chiusi e ve lo posso dire) ed aspettavo con trepidazione questo incontro dal vivo a conferma dei miei sentimenti che, faccia a faccia, non avrebbero avuto più filtri. E, finalmente, il 10 novembre è arrivato.


Premettendo che tutta la musica andrebbe ascoltata preferibilmente dal vivo per il totale coinvolgimento sensoriale, il clima sudaticcio dell'evento e la partecipazione collettiva, devo specificare che la band che si è presentata al MONK di Roma (ex la Palma) era in versione diversa e ridotta rispetto alla registrazione. Su tutti (che in alcune tracks su disco si contano anche più di 30 nomi tra archi e voci del coro) spiccavano per l'assenza Thundercat al basso elettrico, Cameron Graves al piano, Igmar Thomas alla tromba e Leon Mobley alle percussioni.


Ma lo zoccolo duro c'era eccome, con Brandon Coleman - aka Professor Boogie - alla tastiera ed al Moog, Ryan Porter al trombone, Miles Mosley al basso, Tony Austin e Ronald Bruner a raddoppiare la batteria e la voce di Patrice Quinn; tutti a supportare ed abbracciare il tenore di Kamasi Washington. Guest del tour Rickey Washington, il padre di Kamasi, al soprano ed al flauto, che qualche ora prima mi aveva venduto il triplo vinile in cofanetto (thx Washington Sr.!).


La lunga introduzione del gruppo attraverso il tema che ha dato forma a tutto il racconto epico, quel Change of the Guard più volte ripreso e reiterato a sprazzi lungo tutta la durata del concerto, ha da subito confermato che "The Epic" facesse perno sul continuo fine tuning tra le contrastanti sensazioni: dal vivo le singole voci erano un po' più sbilenche e naturali (e per questo più belle!), ma l'architettura portante del lavoro in studio, a tratti veniva meno. L'insieme è stato comunque esaltante, specialmente sui collettivi più infuocati e veloci e, nonostante non avessi digerito ancora l'ascolto in tripla portata, dal vivo la musica è risuonata sorprendentemente nuova in alcuni pezzi, come "Leroy and Lanisha" che si è colorato di tinte più afrobeat al MONK, lasciando diluire i toni più freefunky della registrazione o il vigoroso hardbopper di "Re Run" che sul disco viene un po' inutilmente addolcito dai cori sullo sfondo. 

photo by Lauren Lancaster

I due "standard" avevano già lasciato il segno su di me, nonostante il primo incontro anonimo a metà del GRA in un lunedì in cui mi recavo al lavoro, e l'ascolto sulla pelle non poteva che aggiungere una affascinante sfumatura al range delle emozioni (sono un sentimentale, lo so...). Cherokee è una delle canzoni d'amore più bella della storia americana, usata da Bird per la sua Ko-Ko ed incisa spesso da Chet Baker, mentre il pezzo di Debussy, reso unico da un ballabile assolo di Miles Mosley al contrabbasso, mi ha ricordato che la differenza tra un valzer ed una ballad, o tra un bianco ed un nero, è solo un confine mentale. La felice scelta di chiusura è stata affidata a "The Rhythm Changes" il pezzo forte per la voce della Quinn che sul disco avevo "classificato" come newdancingospelsoul e che i tipi hanno volutamente rallentato dal vivo, donando un'accezione ritmica al beat degna dei più sensuali e sincopati passi della Harlem Renaissance.

photo by Kevin Hill

Quasi due ore e mezza di eccitazione e turbamento senza interruzioni, con il leader che faceva spesso un passo indietro, lasciando il palco alla sua compagine, per contenere i suoi interventi nella misura ma non nella partecipazione.

photo by Annie Tritt

Ma insomma, 'sto Kamasi? ripeto a me stesso...

P Se i tre dischi mi erano sembrati un po' pretenziosi, in realtà avrei voluto che il concerto non finisse mai, e questo mi ha lasciato il pensiero di come io vivo, gestisco e subisco il mio tempo;
P Se la compilazione a tavolino di un patchwork così importante, ampio e doloroso come la storia che ha segnato tutti gli uomini del '900 (nel disco c'è anche la toccante "Malcolm's Theme" con le parole di Ossie Davis tratte dall'elogio funebre a Malcolm X) mi era sembrata un po' pretenziosa, al limite del paraculo, la performance dal vivo mi ha messo di fronte alla sincerità di quei ragazzi (lo sguardo di Washington Sr. basterebbe da solo) ed anche alla mia coscienza, perché in fondo come cazzo posso io valutare sinceramente la veridicità della Black American Music?
P Se l'architettura precisina e senza sbavature della registrazione mi aveva lasciato quello sgradevole gusto ferroso nel retrocranio, la umanità dei suoni e la variabilità delle forme, non delle intenzioni, mi hanno convinto definitivamente e fatto interrogare sul braccio forte, diretto o indiretto, del mercato americano dell'Entertainment tutto, che predilige il prodotto limato e ben rifinito all'intensità più sporca delle vere emozioni.

photo by Mike Park

Insomma, io sono ancora convinto del 1° posto che ho assegnato al Top Jazz, ma se avessi avuto questo incontro prima, probabilmente la scaletta dei miei piazzati sarebbe stata più corretta: i ragazzi di “The Epic” cucinano con un giusto mix di raffinata tecnica (narrativa e produttiva più che strumentale), ricetta storica e nuovo piccante, sanno quello che vogliono dire ed anche come lo vogliono fare e, se davvero hanno voluto mostrare di avercelo più grosso, è solo questione di natura. Questo non dovrebbe né aggiungere merito di santa filiazione, né far opporre una gratuita invidia al loro lavoro, che deve essere solo ascoltato con orecchie pure e ben aperte, ma comunque ascoltato.

Photo by Leroy Hamilton

Anche perché, sinceramente, quanti album di figurine tosti come questo siete riusciti a completare voi nella vostra fanciullesca carriera?


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