Nella video intervista “Nella Fabbrica Abbandonata”, Massimo Urbani ricorda il suo incontro con Freddie Hubbard e dice : «da lui ho imparato non solo cose importanti musicalmente ma anche ad avere un certo “potere” quando stai sul palco: il potere della consapevolezza di essere sincero, no? Per cui tu a quel punto, puoi suonare pure male, comunque sta lì e ce la metti tutta, non ti risparmi di certo… come nella vita diciamo, no? …convinto però rilassato: ecco, questo è il segreto.»
Basterebbero le sue parole, dicevo, per conoscere meglio il suo universo musicale, per comprendere la maturità con la quale costruiva la sua ricerca, per tratteggiare con più realismo il suo profilo umano e completare un commento critico meritocratico, anziché tentare di costruire architetture agiografiche intorno alla sua geniale e dannata immagine.
Ascolto volentieri tutta la musica di Massimo, come mi accade per Chet Baker, perché ogni volta trovo un tentativo di raccontare qualcosa, un esempio di rara umanità, una fragilità che dona forma alla bellezza, ma ci sono alcuni suoi dischi che amo davvero, come il primo inciso a suo nome per la HORO nel 1974, in cui Urbani ci mostra, con la naturalezza e semplicità che gli erano proprie, come era capace di costruire su un esile spunto tematico una personalissima struttura totalmente nuova ed improvvisata.
Il secondo è indubbiamente l’altra faccia di Max, quel Duets for Yardbird inciso con il pianista Mike Melillo nel 1987, che ci ricorda che se l’avanguardia è nei sentimenti, nella tradizione Massimo Urbani aveva costruito la sua poetica.
Questo aspetto unico di Urbani di saper coniugare la tradizione e l’avanguardia, dimostra anche la sua totale libertà dagli schemi imposti dall’establishment musicale che vuole a tutti i costi assegnare etichette di un solo tipo all’espressione artistica, indirizzando così un mercato in schemi fissi, già segnati dall’inutile e perenne diatriba tra gli ascoltatori su cosa è jazz e cosa non lo è.
Il disco che racchiude queste due facce in un unico e toccante profilo è “Max Mood _ Dedication to A.A. & J.C.” registrato in quartetto con Luigi Bonafede, Di Castri e Pellegatti nel giugno 1980 per la Red Record.
Un'altra registrazione che ascolto spesso è “Easy to Love”, registrato nel gennaio 1987 con l’indimenticabile Luca Flores al piano, più Di Castri e Gatto a completare il quartetto, prodotto sempre da Sergio Veschi per la Red, che ci permette di godere dell’aspetto ottimista di Urbani, o almeno di percepire che Massimo credeva nella possibilità curativa della musica per lenire le asprezze della vita terrena.
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L’ultimo, che ho iniziato ad amare da subito, anche se sono riuscito ad ascoltarlo da poco, è questo Round About Max, inciso con il trio di Gianni Lenoci, più un quartetto d’archi a Matera, nel novembre 1991.
Quì non c’è solo l’ennesima dimostrazione che Massimo Urbani era un vero talento con un’innata musicalità, documentato dalla fantastica esecuzione di due evergreen mai incisi prima come The Summer Knows di Michel Legrand e A Time for Love di Johnny Mandel, ma c’è anche la dichiarazione d’amore di Urbani per la forma canzone. In questo disco Massimo si muove in perfetto equilibrio tra i due caposaldi della sua poetica, i sentimenti e l’abilità strumentale.
Sono evidenti, infatti, le prove concrete della sua superlativa tecnica, sicuramente non necessarie ma emotivamente sbalorditive, come una straordinaria lucidità nella costruzione degli assoli, una cura del singolo dettaglio musicale, che si esprime al massimo nell’unicità del suo timbro ed uno spiccato senso ritmico documentato nell’ultima traccia, quel Days Of Wine And Roses che Urbani ci regala in solo. Inoltre, a mio modesto parere, questa è una delle poche incisioni in cui Massimo sembra almeno in pace con se stesso.
Ho la fortuna di conoscere Gianni dai tempi della sua intervista “Il Fuoco sotto la Cenere”, che tentava di fare luce su alcuni aspetti dello stato dell’Arte in questo nostro paese, prendendo spunto dalla sgradevole faccenda che capitò a Pierpaolo Faggiano quando era vivo e dirigeva il Festival di Ceglie e gli ho chiesto un ricordo di quell’incontro e della relativa registrazione con Massimo.
JfI: Gianni, come e quando hai conosciuto Massimo Urbani?
GL: Ho conosciuto Massimo Urbani alla fine degli anni ‘80.
All’epoca vivevo a Roma. Mi ero diplomato in pianoforte al Conservatorio “S. Cecilia” ed avevo anche iniziato ad insegnare musica in un Liceo Sperimentale (che, guarda caso era lo stesso che una quindicina di anni prima aveva visto Massimo fra i banchi, se pur per un periodo brevissimo prima che abbandonasse la scuola per andare in tour con Giorgio Gaslini). Avevo iniziato a muovere i primi passi nell’ambiente jazzistico.
Una sera in televisione sul terzo canale trasmettono un concerto del quintetto di Giovanni Tommaso che oltre al leader aveva tra le fila Urbani, Fresu, Gatto e Rea.
Il concerto scorre liscio (era un quintetto di virtuosi), ma sull’ultimo brano (una specie di groove modale) Massimo prende un assolo impressionante. Mai sentito niente del genere. Io sono completamente investito da quella energia realmente spirituale e concreta al tempo stesso.
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Il giorno dopo parlo di questa mia emozione con uno dei collaboratori scolastici (si chiamava Massimo anch’egli) che sapevo appassionato di jazz e lui mi dice: “Massimo è mio cugino. Quando usciamo da scuola lo chiamiamo. Anzi gli propongo di suonare con te”.
Così fu. Massimo al telefono fu gentilissimo: Mi disse: “Sto andando a Parigi per un omaggio a Charlie Parker con Daniel Humair. Chiamami fra quindici giorni e ci accordiamo”.
Dopo quindici giorni lo chiamo. Si ricorda perfettamente di me (non mi aveva mai visto in faccia, né mai sentito suonare). Gli chiedo se potevo proporre in giro un gruppo con lui come ospite. Mi dice di sì. Torno a casa. Faccio dieci telefonate a dieci club. Ottengo dieci risposte positive. Praticamente un tour.
Non mi è mai più successo nella mia vita.
JfI: io non riesco a scindere la figura di Max dalla rappresentazione di un’epoca, quegli anni Settanta che hanno messo in moto discussioni, stimoli, riflessioni e collettività. Periodo duro ed incantato allo stesso tempo in cui, forse, un mondo migliore sembrava possibile. La vicenda di Massimo Urbani, la sua forza e fragilità, la sua esplosione vitale e la sua tragica morte annunciata sono forse simbolo di quel sogno infranto?
GL: In parte sì. Perlomeno sul piano simbolico.
Riguardo la sua morte (veramente giunta inaspettata: ci eravamo sentiti per telefono cinque giorni prima di quel tragico evento per accordarci su due concerti che avremmo avuto in Molise i primissimi di luglio e mi aveva apostrofato ridendo: «Lenoci, vecchio ribaldo!», da notare la ricercatezza di quel “ribaldo” ) ho sviluppato varie congetture.
Ho sempre pensato che la cosa fosse evitabile.
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Primo: il rapporto con l’eroina non era così continuativo come i tossicodipendenti abituali hanno. Il problema vero secondo me era l’alcol. Quindi al limite sarebbe morto di cirrosi epatica. Cosa che onestamente ho temuto varie volte.
Secondo: era assolutamente incapace di “farsi”. L’unica volta che io sono stato testimone di uso di eroina da parte sua, l’ha fumata.
Ergo: qualche mistero c’è su quella morte c’è. Visto che si era sparato in vena non so quanto di eroina purissima. Ma sono solo delle mie teorie.
La società stava già comunque cambiando a vari livelli. E non sarebbe certo arrivato un tempo per poeti. O perlomeno, i poeti sarebbero stati sempre più ai margini.
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JfI: All’epoca dell’incisione di “Round About Max” non avevi ancora compiuto trent’anni ed avevi alle tue spalle un solo disco inciso con Bruno Tommaso ed Antonio Di Lorenzo. Oggi la tua discografia è molto più corposa e le tue collaborazioni non conoscono confini di sorta. Massimo Urbani aveva appena sei anni più di te ma aveva già un posto tra i grandi del jazz. Cosa provasti davanti a quel musicista?
GL: Suonare con Massimo Urbani è stata Università e Dottorato di ricerca messi insieme e ancor di più. E’ chiaro che da parte mia c’era un’impressionante dose di incoscienza mista a coraggio.
Ma non c’era né arroganza né supponenza in tutto ciò.
Io ero conscio della distanza abissale fra me e lui. Oltre che in termini di vera e propria esperienza, soprattutto riguardo il contenuto emozionale dei “solo”.
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D’altro canto, la mia passione per il jazz era (ed è) divorante e mi dissi che se dovevo entrare in quel mondo era meglio che lo facessi entrando dalla porta principale. A costo di prendere qualche “incornata” (cosa che devo dire, non successe mai con Massimo).
Per tre anni non ho fatto altro che cercare occasioni per suonarci insieme e verificare se quello che stavo sviluppando in maniera autonoma ed indipendente riguardo il mio vocabolario potesse funzionare con lui. Ogni concerto era la lezione per il concerto successivo.
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Il primo dei famosi dieci concerti era programmato nel Jazz Club “Lennie Tristano” di Aversa. Durante il viaggio in auto Roma–Aversa, ascoltavamo musica dalla mia collezione di musicassette.
Massimo voleva ascoltare soprattutto cantanti.
Ascoltavamo quindi Astrud Gilberto (il disco era “The Silver collection”). Ad un certo punto mentre Astrud Gilberto cantava “The shadow of your smile”, Max mi dice: “Man, questo 'o famo stasera. Lo famo alla Sonny Stitt!”. Appena arrivati al club avviso il bassista e ci mettiamo a tirare giù gli accordi. Massimo vuole provare solo il tema (anche lui non aveva mai suonato quel pezzo sin d’ora) e vengo investito dalla stessa onda di energia che avevo avvertito ascoltandolo in televisione.
Anzi, molto di più. Senza cadere nella fumisteria hippy: veramente un’onda di vibrazioni.
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JfI: c’è un pezzo che ami particolarmente di questo disco?
GL: Ovviamente li amo tutti.
Se proprio devo sceglierne uno non posso che dire “The shadow of your smile”, per tutto ciò che significa quel brano.
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JfI: Cosa è rimasto in te, vent’anni dopo, di quell’incontro?
GL: A parte il ricordo struggente di alcuni momenti umani ed artistici passati insieme: idea del jazz come processo espressivo/creativo in continuo divenire e non applicazione passiva di formule e “stili”, visione spirituale del fare musica e visione politica (sociale) del ruolo dell’artista, valore dell’intuito sulla ragione, contrasto tra avanguardia e tradizione, aspirazione (meglio: tentativo continuo) di ricreare quella vibrazione avvertita sul mio accordo di Fa diesis min. quella sera al jazz club Lennie Tristano di Aversa.
JfI: Ci racconti come è nata quella seduta di registrazione?
GL: Partiamo da Roma, il 28 Novembre 1992. L’appuntamento era fissato per le 11 a casa di Massimo, in via Dati 5 .
L’avrei prelevato e saremmo partiti per Matera dove ci attendevano per la seduta di registrazione.
Arrivato a casa sua trovai Massimo ancora sotto le coperte che si preparava uno “svuotino” (per quanto posso testimoniare io non credo fosse capace di “rollare”), utilizzando come base d’appoggio un LP di Dizzie Gillespie. (Era il disco allegato ad un numero di Musica Jazz di qualche tempo prima). Questo rituale andò avanti per circa un’ora dopodiché balzò dal letto, si vestì ed assieme alla sua ragazza Valentina (finora assente dal quadro) che in quel momento usciva dal bagno, raggiungemmo la mia Peugeot 205.
Alla mia richiesta di chiarimenti circa la mancanza del sassofono, mi risponde qualcosa tipo: “Man, l’ho dovuto impegnare_Tranquillo, ce sarà a Matera uno che tiene un contralto da prestàmme….”
Trovata la prima cabina telefonica funzionante chiamo qualcuno a Matera, allertandolo circa la mancanza del sassofono.
Ad ogni modo ci mettiamo in viaggio (con un’ora e mezza abbondante di ritardo sulla tabella di marcia). Arriviamo a Matera verso le 19 e raggiungiamo immediatamente il cinema che era stato adibito a sala di registrazione.
Incontro gli altri musicisti (Pasquale Gadaleta al contrabbasso ed Antonio Di Lorenzo alla batteria, i componenti del mio trio dell’epoca) ed il quartetto d’archi (che non avevo mai incontrato prima di quel momento). Io avevo scelto il repertorio, avevo mandato le parti in anticipo a tutti.
Avremmo provato e registrato direttamente varie takes. Il tutto in diretta.
Quasi tutti i brani appartenevano al repertorio di Urbani che suonavamo abitualmente, con l’eccezione di The Summer Knows di Michel Legrand e A Time for Love di Johnny Mandel che avevo mutuato dal repertorio di Bill Evans e che sotto l’aspetto squisitamente emotivo li sognavo interpretati da Massimo Urbani.
Stavo realizzando una visione.
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Chiaramente, Massimo non ha le sue parti, dimenticate chissà dove.
L’aspetto interessante è che mi chiede di riscriverle escludendo le sigle degli accordi: “A Già, scriveme solo IL CANTO”.
Fortunatamente un appassionato sassofonista dilettante di Matera, (Franco Di Marzio, purtroppo poi prematuramente scomparso) innamorato dello stile di Paul Desmond, accondiscende a prestare il suo contralto Yamaha. Mentre il quartetto d’archi prova le sue parti, Massimo nel backstage ascolta le armonie degli archi mentre fuma l’ennesima “canna” (aveva eletto uno dei tecnici come “rollatore” ufficiale) e scherza con il proprietario del sax; quest’ultimo chiaramente eccitato e preoccupato allo stesso tempo. Si decide di registrare prima i brani con gli archi e poi tutti gli altri. Si aprono i microfoni. Massimo chiede di registrare una take direttamente senza prove.
Estrae dalla tasca della giacca il suo bocchino, prova una scala producendo un suono incredibile come se stesse suonando un Selmer o un Conn costosissimi e si parte.
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Risultato: prima prova (di lettura!): prima take fatta!!
Per farla breve: tutto il disco è stato registrato così. TUTTO FIRST TAKE!
Un’ora dopo il primo suono di sassofono era finito tutto.
Testuali parole sue a conclusione: “Me dovete pijà così... ar primo colpo!”
Non so quanto coraggio, incoscienza o spregiudicatezza ci fosse da parte nostra (da parte del Trio, intendo). Certo è che a me sembrava realmente di stare nel jazz entrando dalla porta principale.
Col senno di poi tantissime cose si sarebbero potute realizzare meglio, ma eravamo veramente low budget e lo spirito che ci animava era lontanissimo dal perfezionismo e dallo star system di oggi.
Si cercava solo di catturare un emozione e conservarla per sempre.
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Quello spirito è rimasto intatto.
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Credits:
Label: SENTEMO
Catalog #: SNT 30392
Format: CD
Country: Italy
Recorded at Matera,
November 28, 1991
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Massimo Urbani (alto sax),
Gianni Lenoci (piano),
Pasquale Gadaleat (bass),
Antonio Di Lorenzo (drums)
Marzia Mazzoccoli (I violino)
Anna Tenore (II violino),
Vincenzo Longo (viola),
Davide Viterbo (violoncello)
Tracklisting:
1) The Summer Knows - 7:37
2) The Shadow of Your Smile - 5:43
3) I Cover the Waterfront - 4:36
4) Star Eyes - 5:55
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5) Invitation - 7:08
6) A Time for Love - 13:09
7) Days of Wine and Roses - 2:55
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Magnifique son du saxo de Massimo Urbani.
RispondiEliminaUn grande grazie per Francia
Grazie, questo mi mancava
RispondiEliminaRoberto, che bella cosa; io da tempo avevo questo CD, "copiatomi" dall'amico Filippo Monico, una scoperta emozionante anche per me.
RispondiEliminaConcordo sia sul suono magnifico, sia sulla sensazione che in quella occasione MAX fosse veramente a suo agio; si sente che è così, non so spiegarti a parole perché, ma è così.
Due anni fa un piccolo cerchio si è chiuso: ho incontrato e conosciuto Gianni Lenoci e abbiamo suonato e inciso insieme; un eccellente musicista, una splendida persona. La prima cosa che mi ha chiesto è stata di parlargli del mio rapporto con MAX; gli anni passano ma è come se il tempo, qualche volta, fosse congelato; come spiegare altrimenti le lacrime di Ivano Nardi al telefono, al ricordo del suo amico di sempre ? E il fatto che quando soffro di insonnia mi impilo i CD di MAX sul comodino e le emozioni traboccano ascoltando ? E l'incredibile lavoro che hai deciso di fare, e che farai superando tutti gli ostacoli ?
Roberto Del Piano
Stupendo, un'altra sfumatura della personalità e del gusto di Max. Di nuovo, grazie.
RispondiEliminaRecuperato su ebay, 4,50€, che gran botta di fortuna. Vorrei segnalare un errore nel testo di Serafino Paternoster che accompagna il CD. Il titolo del film di Tavernier non è "Round about Midnight", ma "Round Midnight".
RispondiEliminaBellissimo abbinamento Urbani/Munch.... grazie!
RispondiEliminaVeramente splendido. Bellissima Days of wine and rose per solo sax e The Shadow of your smile, un tema stupendo suonato meravigliosamente. Bravissimo anche Lenoci. A dir la verità degli archi si poteva anche fare a meno, ma non importa.
RispondiEliminaGrazie mille.
Dario
Molto interessante, non solo, come è ovvio, per la prova di Max, ma anche e soprattutto per la bella intervista a Gianni Lenoci, che dà la giusta luce ad un validissimo e a mio avviso misconosciuto talento nostrano. Mi fa piacere postare qui un link http://www.insubordinations.net/releases28.html dove lo si può ascoltare un contesto assai diverso, alla guida di un organico imponente.
RispondiEliminaAlfonso
Hello. Thanks for the great interview with Gianni Lenoci. If you don't mind, I'll mention it in a piece on his just-released new album, with Kent Carter and Bill Egart, "Plaything" on NoBusiness Records. I must ask, would it be possible to upload this album? Thank you.
RispondiEliminaUn nuovo link funzionante sarebbe necessario, per salvare questa splendida testimonianza di Massimo Urbani e Gianni Lenoci
RispondiElimina