lunedì 12 marzo 2012

Enrico Rava 4tet _ Jazz in Italy vol.2 _ CETRA EPD 37


« Rava, fratello,
hai fatto troppa strada perché possa crederci.
Per me hai ancora i capelli a spazzola, sei l’amico da chiamare con il cognome, come fanno i ragazzini a scuola. Per me Enrico Rava è quello che veniva con Belgrano (che tenerezza “il Rosso” che copiava Zoot Sims e squadrava anche il blues in sibemolle) la domenica pomeriggio, nel laboratorio di ceramiche artistiche di mio padre; ti nutrivi di Miles Davis per settimane, consumavi i dischi anche quando non c’era più una frase, un accordo, un fruscìo che non sapessi già a memoria. Per me Rava è quello che viveva, come tutti noi (eravamo giovani borghesi, ma allora esserlo non ci sembrava così grave) nel negozio di dischi ad aspettare che arrivassero i Long-Playing d’importazione, e con noi Franco Mondini, Maurizio Lama, Dino Piana, Raoul Marietti.


Ecco, butti lì un po’ di nomi e ti viene un groppo in gola. Maurizio Lama era appena arrivato a Torino, ancora intatto il suo accento romano, un ragazzone buono più di tutti noi, un grande pianista poi distrutto nelle lamiere di un auto. Quando morì andai nel bagno a piangere (e l’ho fatto solo per mio padre).
Voi due eravate inseparabili. Alla sera si provava (ti ricordi?), quelle sere d’estate che a Torino ti fanno pensare a Pavese, con la collina che ti manda l’odore di terra bagnata, i ragazzini sino a tardi a correre sui viali e noi a rifare Gerry Mulligan e Chet Baker.
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Ho ancora le fotografie della Big Band di Pedro Brovarone, quel pazzesco incrocio di scarti musicali, cosa da libro Cuore, studenti, portalettere e muratori.
Tu fingevi di leggere i pezzi (anch’io, quanto a questo); fingevamo di leggere, Rava, ma ci importava così poco sbagliare sempre le terzine ed i trentaduesimi: il jazz l’avevamo nel corpo, non era sul leggìo (tu l’avevi piantato in modo così profondo da far male). 
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Poi, per me, la 46a Aerobrigata a Pisa, Servizi Operativi Generali: jazz, addio.
E tu hai cominciato a fare sul serio. Ci siamo rivisti ad un concerto ed eri già un altro. Il primo disco per la collana Jazz in Italy della Cetra era ancora intriso di californiano, ma era un passo importante.
Il salto l’avevi già fatto: avevi rotto i flirts con le nostre amichette borghesi, lasciato l’azienda di tuo padre (non ci poteva credere, quando l’incontrai, anni dopo; non sapeva rassegnarsene). Con Gato Barbieri e Steve Lacy avevi già visto oltre la sponda del Po.
Tu sei uno dei pochi che non ha suonato altro che jazz.
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Non una stagione al mare da studente (cha-cha-cha contro vitto e alloggio per un mese a Castiglioncello), non un contratto ad Amburgo (dalle ventuno alle cinque, a St. Pauli, venti marchi, puttane ed ubriachi), non una veglia a Capodanno (Caffè dei Musicisti: “uno libero per stasera, con vestito nero”?): mai.
Soltanto jazz, prima dolciastro (Chet Baker ci sembrava tanto grande), poi Miles Davis (diceva molto di più, con cuore e cervello). Davis drago, mostro scorbutico, furb’uomo che entra nelle porte aperte dai geni, butta due note (sordina alla tromba) e solleva un mondo di cose così belle da sembrare un po’ magiche (colore, piccole luci, bolle leggere), un mondo libero, libero.
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Cosa vuol dire per un italiano la liberta (nell’arte, nella musica, ma anche soltanto libertà tout-court)?
Oggi leggevo sul giornale la risposta che Montanelli dava ad un collega, a questa domanda: “la libertà, per noi, consiste nel fare il comodo proprio. Questo è il concetto dell’anarchia, e l’italiano lo confonde con la libertà, che è invece possibile solo con l’autocontrollo”.
Come reagisce un italiano di fronte ad una musica libera? Del jazz, io credo, possiamo farcene un alibi o una ragione di vita. Può essere una scusa per eludere le armonie di un giro troppo complicato o un modo per prendere coscienza della nostra posizione nel sistema. Tu, con i romani del free jazz, hai avuto il coraggio di fare la tua scelta: no alla jam session borghese, no alla macchina di papà, all’azienda avviata.

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Avresti ugualmente potuto evitare (facilmente, senza merito, rimanendo nel tuo ambiente) di contaminare il tuo jazz con le canzonette.
Avresti potuto (meno facilmente, ma sempre senza merito) fare il free-jazzman della domenica.
Avresti potuto ancora cercare (lo fanno in molti, li conosco) scuse tecniche (“adesso studio due ore al giorno, quando sarò a posto con lo strumento mi lancerò”) e avresti aspettato tutta la vita, spostandoti sempre in avanti il traguardo, in una stupida corsa che non avrebbe mai avuto un arrivo.
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Invece sei partito: con una imboccatura così così, copiando Miles Davis, seguendo le mode, facendo tanti trilli quando non ti veniva l’idea, ma hai avuto la meravigliosa faccia tosta di comprometterti con il jazz.
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Non sei bravo, Rava, solo perché hai suonato a New York con Roswell Rudd.
Sei bravo perché hai saputo comprometterti sino al collo, lasciando le sabbie mobili di una vischiosa borghesia torinese per immergerti nella vita del jazz man, buttando fuori dalla tromba tutta la repulsione per questo nostro modo di vivere, soffocato dai non si può e non si deve della vita. Voglio dire, Rava, che essere un uomo del jazz (e dire qualcosa nel mondo) oggi è possibile anche ad uno nato a Torino o a Roma, Merano, Caserta, Vercelli o Dovevuoi. Prima non sapevamo si potesse dire qualcosa che qualche nero in America non avesse già detto. Non sapevamo o non c’erano i motivi per farlo, mancava forse la condizione ambientale perché ciò potesse esistere. O forse c’era tutto questo e non abbiamo (o non hanno, loro, quelli venuti prima, perché noi allora leggevamo Salgari) saputo scoprirlo.
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Siamo (e sono) stati sviati dai giudizi di imbecilli come Panassié, che non ammetteva il jazz suonato da bianchi, razzista alla rovescia. Siamo (e sono) stati coperti di nazionalismo ottuso che ci ha costretto ad intendere il jazz come un fenomeno afroamericano che nasce e si coltiva, come un tubero, tra questo e quel parallelo. No.
Il jazz non appartiene più al folklore americano, ma alla cultura del mondo. Accetto la tesi di Umberto Santucci, quando apre l’Enciclopedia Universale dell’Arte e traccia la differenza tra arte provinciale e arte periferica.

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La prima, pur ricevendo moduli e proposte originali dalla cultura della madrepatria, partecipa attivamente a tale cultura perché ne rielabora i moduli, tenendo conto della propria tradizione culturale e si realizza come arte fortemente influenzata da quella originale, ma al tempo stesso dotata di caratteri distintivi sufficienti ad individualizzarla.
L’arte periferica, invece, riceve passivamente i moduli che le giungono dai diversi centri culturali e, assolutamente priva com’è di risorse proprie, riduce presto questi stimoli in elementi cristallizzati ed esteriori. Tutto il jazz non americano deve essere considerato arte provinciale. Basta prendere coscienza di questa funzione del jazz suonato oltre un certo parallelo, basta non scadere nel discorso periferico.
Basta voler vivere, intensamente, il jazz dal di dentro.

Ti sei buttato, Rava, hai avuto il coraggio di essere un pazzo di vivere. Per questo, bravo».
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In questo affettuoso ritratto, schizzato dall’amico Enrico Cogno e dato alle stampe all’inizio del 1971 sul suo “Jazz Inchiesta Italia”, troviamo diversi spunti per valutare la figura di Enrico Rava in seno al panorama mondiale del Jazz.

Su tutti emerge sicuramente il coraggio di quest’uomo, la sua esperienza cosmopolita, la trasversale sete di cultura, il navigare spesso controcorrente, la capacità rara di unire tra loro elementi diversi delle arti, la ferrea volontà di seguire un sogno.
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È praticamente impossibile separare il profilo di questo musicista, nato a Trieste il 20 agosto del 1939, da tutte le considerazioni che si possono fare sul jazz italiano, e quindi europeo, in confronto a quello americano.
Lo stesso Rava si è espresso più volte in merito; una delle prime volte è stato nel novembre 1972 quando, scambiando quattro chiacchiere con Gian Carlo Roncaglia, alla domanda “New York è ancora e sempre il centro vitale del jazz” così rispondeva:

«Non può esserci dubbio, il jazz è una cosa americana, anzi, per essere più esatti, negroamericana, ed è, per me e non solo per me, il più importante fatto musicale del secolo. Ed è a NY che lo si può vivere. Io, se debbo dire la verità, non è che mi trovi mai troppo bene, che ami vivere in questa città, che è un mondo in un mondo, anche se ha degli aspetti veramente affascinanti. Ma solo a New York ci si può sentire in un certo modo, la vita che vivi ti spinge, con non so che cosa, ad un certo tipo di suono. Vedi, mi dai lo spunto per dire una cosa. È inutile che continuiamo a raccontarci le favole del “jazz all’italiana” o, che so, del “jazz alla polacca”, ecco. Il jazz, non c’è niente da fare, è lì, è lì che è nato veramente, non dimentico certo New Orleans o Chicago, ma è lì che è diventato patrimonio musicale di tutto il mondo, e oggi, e sempre, non può essere che lì. Non so, anche a Los Angeles c’è jazz, ma è jazz condizionato all’industria cinematografica, capisci? Quincy Jones, per esempio, a me piace molto, però là fa musica per film, non fa jazz. E così altri, come Don Ellis etc etc. A New York no, tu fai jazz. Ornette, per esempio, incise a Los Angeles, con Don Cherry, i suoi primi dischi, ma fu a NY che realizzò “Free Jazz” con il suo doppio quartetto.»
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Ma Enrico Rava stesso è una contraddizione di questo ragionamento, per le sue origini geografiche, per i suoi progetti che uniscono la sua musica all’opera ed alle canzoni italiane, per il suo lirico linguaggio, riconoscibile già dalle prime note ricche di melodia. 
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Rava è contraddittorio non per incoerenza, ma per voluta scelta, per l’amore delle domande tese a costruire il percorso della sua ricerca, anziché convivere con la rigida e fittizia sicurezza delle risposte, per il suo destino nomade, che non conosce barriere geografiche di sorta, per la facilità con la quale ha comunicato con musicisti di tutto il mondo, senza chiedersi mai in che lingua bisognasse dialogare, per le citazioni letterarie che trovano spesso posto nella sua musica, per i continui scambi e rimandi con pittori e fumettisti, che l’hanno ritratto com’è e come a loro appare. Rava è l’antinomia del ragionamento consolidato, il riflesso sfuocato che contrasta il ritratto iperrealista del jazzista contemporaneo, il padre coraggiosamente snaturato di nuovi talenti, e l’opposto del figliol prodigo della musica borghese italiana.
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Dr. Ra & Mr. Va è un calembour vivente e tentare d’inquadrarlo in un’unica immobile figura, sarebbe come dire che il jazz corrisponde ad una descrizione specifica e circoscritta dall’ enciclopedia Treccani.
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Significativa l’intervista rilasciata a Mario Luzzi e pubblicata nel 1980 sul suo “Uomini e Avanguardie Jazz” dalla Gammalibri.
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«ML: Ho ascoltato la Globe Unity eseguire “Wolverine Blues” di Jelly Roll Morton in modo assai tradizionale, pur se con significati manifestamente diversi: secondo te, quello che si sta sviluppando oggi in Europa e, principalmente, il lavoro della Globe Unity e del Kollektief di Willem Breuker, può portare a una filosofia improvvisativa europea del tutto autonoma dalla tradizione nero-americana?
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Enrico Rava: Sinceramente, non saprei dire con sicurezza se si miri ad arrivare a ciò.
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ML: Per quale motivo, allora, hai fatto e tuttora fai certe determinate esperienze con la Globe Unity e con altri musicisti europei? Solo per suonare con loro?
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ER: Lo faccio perché mi piace trovarmi ad essere presente dove c’è uno stimolo diverso, dove succede qualcosa e poi, certo, perché amo suonare con certi musicisti. Riesco ad avere con loro un interscambio particolarissimo, aperto, senza limiti. […]
Non ho fatto tutto ciò, comunque, con lo scopo di creare una musica europea. È chiarissimo che esiste una musica improvvisata europea, e non sono solo la Globe Unity, il Kollektief o l’ICP a rappresentarla. Ci sono gli italiani, i francesi, gli inglesi, che fanno improvvisazione.
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ML: È vero. Però in molti casi vi è un aggancio chiaro a determinate matrici nero-americane, mentre molti nuovi improvvisatori europei hanno dichiarato, a fatti e a parole, di voler creare qualcosa di completamente nuovo. Per te è possibile che ciò accada?
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ER: Io non ho mai ascoltato alcun musicista che non debba qualcosa alla tradizione jazzistica americana, perché il linguaggio, in fondo, è quello. Ad esempio, Peter Brötzmann… Il suo modo di suonare il sassofono è senz’altro il più rivoluzionario e ostico di tutto il jazz europeo, eppure ha delle chiarissime radici nei sassofonisti americani degli anni Sessanta, e così tutti gli altri che ho conosciuto. Ciò non toglie che in Europa si stia creando una musica estremamente bella, e che ha delle caratteristiche ben precise. Potrei farti un elenco di nomi di musicisti che possiedono caratteristiche originali, e tra questi musicisti mi ci includo anch’io. A proposito della mia musica ho letto delle cose che dicevano che Rava suonasse come un americano, e così via; comunque, chiunque abbia un minimo di sensibilità musicale è in grado di accorgersi che nel mio lavoro la melodia è molto italiana, tipicamente italiana. A New York certi critici mi vedono completamente italiano: il mio lirismo personale è prettamente italiano.
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ML: A proposito di cose lette, ne ricordo una che diceva che Rava avrebbe un fraseggio lirico addirittura di derivazione operistica…
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ER: senza arrivare a tali esagerazioni, c’è proprio un mio modo di cantare con la tromba che è molto italiano. I miei temi si riallacciano al folklore, alla mia tradizione. Il mio folklore non è la musica rurale, io sono cresciuto in città, e nella mia musica c’è tutto quello che ascoltavo durante l’infanzia e l’adolescenza: la musica che ascoltavo alla radio aveva un certo tipo di metodicità che mi è rimasta e che io amo. Ascoltavo molto le canzoni di Gino Paoli, un cantautore che una ventina di anni fa portò una musica molto nuova, ed è per lo stesso motivo che amo profondamente la musica di Caetano Veloso perché, in fondo, ha lo stesso senso melodico. 
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Per esempio, nella musica di Jan Garbarek si avverte chiaramente un riallaccio al folklore norvegese: chiunque sia stato in Norvegia, anche solo per una settimana, si rende ampiamente conto di quanto quella musica sia legata al suono cupo e vibrante di Garbarek. Ciò è molto bello, è naturale. Ognuno di noi europei si esprime in una sua maniera, pur riallacciandosi in parte ad un linguaggio jazzistico che può far capo agli Stati Uniti. Vedi, quando si parla di musica etnica, si parla di regioni, di razze, di colori della pelle e via discorrendo. Quando si parla di “Art Music” si parla di una musica universale, di un linguaggio che può essere capito e parlato da tutti, e alla cui evoluzione possono partecipare tutti, indipendentemente da razza, lingua, nazionalità… Il jazz appartiene a questa seconda categoria, anche se le sue origini sono, come sappiamo tutti, afroamericane, e appartiene a chiunque lo ami.
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Un italiano che suoni jazz è tanto naturale quanto un americano che canti Puccini o un francese che esegua Beethoven. Quasi tutti i musicisti di jazz danno generalmente per scontata questa realtà; molti di coloro che si occupano di jazz, invece, e cioè critici ed operatori, riducendo questa musica ad un fatto di folklore, riconoscono valido solo il jazz fatto dai nero-americani. Altri, partendo sempre dalla stessa visione folkloristica della cosa, ma con obiettivi opposti, inventano tendenze o categorie del tipo “radicalismo europeo” o “musica creativa improvvisata”, quasi a giustificare l’esistenza di quei musicisti che, in Europa, fanno del jazz e, in definitiva, a giustificare se stessi. Nel corso di questa operazione creano regole che determinano l’appartenenza o meno di un musicista a questa o a quella categoria, dandone così un giudizio morale. Questo processo, inoltre, facilita immensamente il loro mestiere di critici in quanto, anziché dove analizzare in profondità il lavoro individuale di ciascun musicista, si limitano ad esaltarlo o a distruggerlo in base alla sua appartenenza o meno a una data corrente che loro stessi hanno creato».
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Sorprendere sempre, non avanzare mai in linea retta, affermare l’errore per cercare un’altra possibile soluzione, ascoltare il mondo intorno, non rinnegare le proprie origini e non perdere mai d’occhio il futuro.
Non sono pure queste le caratteristiche del jazz, o vogliamo continuare a tenerci strette quelle tipo: ritmo sincopato, contrappunto di ritmi, tecnica strumentale, improvvisazione, particolarità tematiche, swing e licenze armoniche, che vergava Augusto Caraceni nel giugno 1945?
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Enrico Rava incide il suo primo disco a 19 anni, proprio questo EP della Cetra, ed è già un altro, non solo perché viene citato per la prima volta nella sua vita, sulle pagine di una rivista specializzata, come E. Nava. Potrà sembrare, come dice Cogno, di sentire echi di Miles, Chet o del grande Nunzio Rotondo in queste tre tracce incise da quei ragazzi, Maestri che Rava ha inevitabilmente copiato per cercare la propria strada, ma mai imitato.
Oggi è facile prendersela con lui perché non rinnova la sua formula, perché si è adagiato su una riconoscibilità musicale collaudata, ma davvero pretendiamo il futuro di una musica da un musicista di settantatre anni? E davvero non gli dobbiamo la nostra riconoscenza per quello che ha già fatto?
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Sicuramente ci sarà chi costruirà precise dissertazioni musicologiche intorno a queste mie semplici considerazioni appassionate, come ci sarà chi potrà affermare senza macchia che il jazz suonato da musicisti italiani non è jazz, perché è quello americano l’unico ed il solo che meriti questo titolo. Alcuni penseranno che il jazz è nato con Nick La Rocca, cioè con gli italoamericani, e ci saranno i siciliani in battaglia con i genovesi per stabilire chi ha contribuito di più nel dare i natali a questa musica. Ed altri possono documentare che il jazz si è fatto conoscere ai più grazie al contributo della cultura ebraica, mentre qualcuno si ricorda di Adolph Ignatievich Rosner e può affermare che è stato il Louis Armstrong dei Gulag. Per fortuna è impossibile non inquadrare in questa panoramica i tanti profili forti degli afroamericani e tutti si ricorderanno anche uno zingaro che è passato in mezzo a questa storia su un carrozzone tirato da un unico cavallo.
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Immagino pure che salterà fuori il commesso di Pavia che sorriderà alle canzoni di Gino Paoli intese come spunti possibili per il jazz, come il ragioniere di Matera a quelle di Michael Jackson, o l’ingegnere bergamasco che s’incazzerà come un pazzo al solo sentir nominare Rava tra i jazzisti. 


Io ricordo un’intervista del 1989 a Miles Davis, condotta da Gegè Telesforo che, ad un certo punto, domanda al divino Miles: “si parla molto di una probabile collaborazione tra lei e Prince; cosa c’è di vero e, perché proprio con Prince?”
Voi ricordate la risposta?


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Credits:

Jazz in Italy vol.2

Label: CETRA
Catalog #: EPD 37
Format: EP
Country: Italy

Recorded at Milan,
1960, March 30
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Enrico Rava (trumpet),
Maurizio Lama (piano),
Filippo Faguttin (bass),
Franco Mondini (drums)
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Tracklisting:

Tema for Franco – 2:30
Line for Lyons – 3:20
Fine and Dandy – 4:20

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edoc


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Art by
Renzo Vespignani
1924-2001
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5 commenti:

  1. Thank you very much. I always wanted to hear some early Enrico Rava.

    Mille grazie!

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  2. Grazie, conosco bene l'arte di Enrico, ma non sospettavo nemmeno l'esistenza di questo disco, che emozione!

    Ciao,

    Dario

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  3. Uno dei migliori blog musicali in assoluto. Io amo il jazz, ma anche altri generi musicali; e posso dire a mente tranquilla: questo è uno dei migliori blog musicali in assoluto.

    P.S.: sul profilo e anche sulla colonna destra del blog, bisogna togliere quel link a Splinder: la celebre piattaforma per blog ormai non esiste più.

    Complimenti per tutto. Ciao. Vi linko immeiatamente qui: topolain.blogspot.com

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  4. I agree with onxidlib,we do not have much opportunity to hear very early Rava. The earlier Rava recording i have is his tenure with NY horn rock band, Gasmask.

    Your blog is fabulous.
    Cheers

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