venerdì 12 novembre 2010

C'è da fare questa guerra, e la farò - Intervista a Massimo Barbiero


Batterista e percussionista da più di vent'anni "on stage", con quasi trenta dischi a proprio nome - o con i gruppi da lui ideati - di cui uno votato come migliore disco del Mese da “DONW BEAT”, evento mai accaduto ad un gruppo italiano, tre DVD e tre libri dedicati, Massimo Barbiero è compositore della maggior parte delle musiche dei gruppi in cui opera, ed i suoi lavori sono stati recensiti in Italia, Francia, USA, Germania, Austria, Canada, Giappone.


Il suo nome è stato inserito nella “Penguin Guide to Jazz”, la più importante pubblicazione di jazz del mondo, e da anni è attivo come insegnante sul territorio (ha fondato la scuola di musica moderna - Music Studio). È Presidente dell’Ivrea Jazz Club, dell’organizzazione dell’Euro Jazz Festival d’Ivrea, ed è il creatore del Open World Jazz Festival.


Le sue collaborazioni vantano nomi con musicisti di fama internazionale come Carlo Actis Dato, Elton Dean, Harry Beckett, Mino Cinelu, Alexander Balanescu, Maria Pia De Vito, Billy Cobham, Antonello Salis, Giancarlo Schiaffini, Claudio Cojaniz, Nihar Metha e molti altri.

Le sue partecipazioni hanno avuto come palcoscenico i più importanti Festival europei, oltre a tutti quelli nazionali, tra cui: Siena Jazz, Euro Jazz Festival, Chaumont (Francia), Belgrado (Jugoslavia), Pristina (Kosowo), Locarno (Svizzera), Sardegna “Musica sulle Bocche”, Cremona (Progetto Jazz), Volterra Jazz, Jazz & Wine of Peace, Festival internacional Universijazz in Valladolid (Spagna), Clusone Jazz.  


Con un curriculum così ricco, un musicista potrebbe occuparsi solamente di suonare, comporre e organizzare ogni tanto, solo per il piacere di farlo, ed invece il protagonista di questa intervista non crede che tutto nel jazz accada "a mezzanotte circa", come nel bellissimo film di Bertrand Tavernier e non ama assumere pose da artista arrivato, anzi dice:

«sono anche un pò annoiato dalla figura dell'artista bohemien, dalla parodia del suonatore di jazz degli anni Cinquanta che molti musicisti di casa nostra tengono viva in maniera un pò pittoresca. Non sono disponibile ad andare in giro per club a suonare standard. La mia cultura non è quella dell'artista disordinato e stralunato. Io vengo dalla fabbrica, sono stato anche nel consiglio sindacale dell'Olivetti. Parto dalla base concreta che è la mia scuola di musica di Ivrea e su quella base cerco di costruire la mia vita di tutti i giorni.»


A mio parere, inoltre, un'esperienza di tale livello, con una vasta documentazione delle sue molteplici sfaccettature, dovrebbe ricevere il giusto ritorno mediatico e, soprattutto, il meritato spazio di espressione nelle programmazioni concertistiche, che però confondono sempre più i concerti con gli aperitivi, che barattano meschinamente la creatività, il confronto con l'attualità ed i nuovi fermenti culturali con l'intrattenimento, ed è impossibile pensare che questo possa andare a genio con un profilo del genere, che afferma:

«Vanno fatte scelte, prima che musicali, di vita, altrimenti la musica che suonerai sarà solo la manifestazione della tua inconsistenza, e non importa con quante scale, settime diminuite o modulazioni la riempirai.» 


E' sempre più raro, al giorno d'oggi, sentire un musicista affermato parlare in questi termini: «Il jazz - e la musica in genere - non può essere rassicurante, non deve distrarre, l'arte deve portarci a pensare, nel caso contrario ha fallito la propria necessità.»

Ed è ancor più prezioso il fatto che Massimo Barbiero, questo il nome da cui scaturiscono tali pensieri, in naturale oscillamento tra il senso etico ed una personale idea filosofica, abbia accettato di percorrere "questa strada" cioè il web per farlo, anzichè la tradizionale critica su carta stampata, onorandoci della sua presenza, unica nel panorama italiano.


Tra i gruppi da lui ideati, sicuramente il progetto più longevo ed interessante è quello chiamato Enten Eller, un quartetto jazz contemporaneo fondato nel 1984, indirizzato verso una ricerca timbrica e ritmica che raggiunge il massimo dell'espressione nella libertà di composizione e nell'improvvisazione solistica (Alberto Mandarini, Maurizio Brunod e Giovanni Maier), e che al suo interno ha inglobato da Tim Berne a Javier Girotto come voci aggiunte, e speciali.

La sua seconda importante creatura è ODWALLA, nata nel 1989 come un ensemble di sole percussioni che vive di una scrittura più complessa e ragionata, nonostante la riduzione essenziale all'aspetto primordiale della musica, al suono primigenio fatto di pelle, legno e metallo (Matteo Cigna, Andrea Stracuzzi, Alex Quagliotti, Stefano Bertoli, Doudù Kwateh).

Anche in questo progetto si aggiungono di volta in volta voci nuove ed amiche come Billy Cobham, Doussou Tourrè, Peppe Consolmagno, Lamine Sow, Lao Kouyate, Nihar Metha o l'ultima grande guest, Famoudou Don Moye, che incontrerà il gruppo nella serata che avrà luogo giovedì 11 novembre, e non è per una ricerca di sapori etnici che Barbiero apre sul palcoscenico globale, quanto piuttosto per mischiare linguaggi, pronunce e culture, unica via per comprendere meglio il mondo in cui viviamo.


La creazione musicale di Barbiero è trasversale a tutte le arti, in cui ognuna si nutre reciprocamente dell'altra, ed include la danza, la fotografia ed il cinema (su tutti il Progetto del 2006 ispirato a “Il settimo sigillo ” di Ingmar Bergman).

Ovviamente c'è anche la letteratura, che rappresenta fonte inesauribile di ispirazione e di approfondimento, già dal nome del suo primo gruppo: Enten Eller è il titolo dell’opera principale del filosofo danese Søren Kierkegaard (pubblicata in italiano come Aut-Aut).
Il primo incontro dello stesso gruppo con Tim Berne, ha per titolo "Melquiades" (1999), un personaggio magico di Gabriel García Márquez che abita le pagine di "Cent'anni di solitudine" ed un altro disco, che vede sempre la presenza di Berne nell'organico, s'intitola "Auto da Fé" (2000), ispirato dall'unico romanzo di Elias Canetti.

Anche nei lavori più recenti, come Marmaduke (2009) con l'immancabile Maurizio Brunod, Claudio Cojaniz e Alexander Balanescu, la letteratura è uno special guest, in questo caso con una frase di Jean Paul Sartre riportata nel booklet che dice: «Non temere, non cederò. Farò loro orrore, poiché non ho altro modo di amarli, darò loro degli ordini, poiché non ho altro modo di obbedire. Rimarrò solo, con questo cielo vuoto sopra la mia testa, poiché non ho altro modo di essere con tutti. C'è da fare questa guerra, e la farò.»


Mai frase come questa mi è sembrata più attuale e più aderente alle tematiche che da qualche tempo cerco di approfondire. E' da questo incipit che parte l'intervista.

JfI: Massimo, ci spieghi cosa sta succedendo con quello che ancora viene chiamato il Festival Jazz  di Pavone? 

MB: Ma, è difficile spiegare, posso fare una riflessione sul programma del Festival Jazz  di Pavone (?), che ad ogni modo ci rifiutiamo di chiamare Open Jazz, non riconoscendolo come tale.

Spacciare questa “cosa” per un “festival” e chiedere contribuiti pubblici è veramente il limite a cui credevamo non si potesse giungere…..e tutto questo tra il silenzio generale… L’imbarazzo per simili comportamenti in questo territorio ormai non ha più nessuna decenza. Questa è una rassegna di una qualunque birreria torinese, una festa di paese….con che coraggio si può spacciare per un festival ?
Noi abbiamo invitato la stampa ad informarsi sul curriculum dei musicisti che si esibiranno. Prova né è che non esiste una promozione in termini nazionali, né sulle riviste di settore né alcun tipo di organo d’informazione se non locale. E questo solo pochi giorni prima dell’inizio, se fosse una cosa seria sarebbe irresponsabile una simile promozione.

(Barbiero fa riferimento al Luglio 2010, periodo in cui ho realizzato l'intervista - N.d.A)


Il rispetto per chi suona non è in discussione, ma il valore di mercato della manifestazione e meno di zero, nessuno partirebbe mai da Biella o Aosta per una simile manifestazione, ed i festival si fanno con criteri oltre che culturali soprattutto turistici, devono esser volano per fare scoprire il territorio, questo avviene in tutto il mondo.

Le nostre edizioni avevano nomi come Jeff Berlin, Billy Cobham, Miroslav Vitous, Paolo Fresu, Horacio Hernandez, Gianluigi Trovesi,Tenores de Bitti, Danny Gottliebed, Percussionisti del Regio, Carlo Actis Dato, Adam Naussband, Odwalla, Enten Eller, Ellen Cristhe, Claudio Lodati, ecc…..giornalisti e fotografi di livello europeo.
Tutto questo è stato distrutto in pochissimo tempo.

Ci consola sapere che quella che consideriamo la vera edizione, la nona si terrà a novembre come gli ultimi tre anni tra Ivrea e Banchette il cui livello non è mai sceso e ha nei suoi ideatori (gli stessi che da 30 edizioni lavorano sull’Euro Jazz Festival) l’elemento di continuità,serietà e soprattutto qualità,che non è mai stato tradito.

Ciò che spiace e rischiare di venire confusi come Ivrea Jazz Club con quella situazione,da noi creata, ma da cui vogliamo oggi fortemente prendere le distanze.
Questo per chiarezza e trasparenza, qualunque iniziativa anche amatoriale come questa, è benvenuta, ma non si può spacciare Tavernello per Barolo ai danni di cittadini che non conoscono a fondo la materia di cui si tratta, è questione, prima di tutto, d’onestà intellettuale.
Ma soprattutto perché questo è un lavoro serio e responsabile, e noi non possiamo rischiare per la nostra immagine di venir confusi con simili operazioni.


JfI: I contributi pubblici sono importanti per un Festival del genere, dove la progettualità si slega dagli obiettivi di rientro del profitto e dove lo spettacolo punta alla ricerca ed alla qualità anzichè al mero intrattenimento? 

MB: Sono importanti, ma non sono più destinati a quell’obbiettivo da tempo, o almeno per molte situazioni, di tagli, chiusure di festival o “trasformazioni”. Mi spiego meglio: sarebbe troppo semplice leggere come la conseguenza dei soliti due presupposti:
1) operatori culturali incapaci, mediocri politici, mediocri uomini piccoli filistei che hanno responsabilità più grandi di quanto essi siano in grado di comprendere.
2) Una vendetta per cambio di fazione politica post elezioni, per distruggere tutto quello che hanno fatto quelli prima…


Secondo me c’è né una terza, ed è da diversi anni che avanza, ho provato ad esprimerla in qualche intervista negli ultimi anni, mi mi pare non venga colta.

Cioè sino a qualche tempo fa pochi consideravano i festival jazz utili, strategici per la propria immagine, economicamente interessanti. Sembravano più che altro elementi da usare in determinati contesti per rilanciare una località, dove il caso vi aveva fatto nascere un’amante della musica e/o un musicista che più o meno gratuitamente avrebbe messo a disposizione tempo, energia e passione per la realizzazione di un’idea.
Per un politico, un uomo di potere, era più utile comprare una squadra di calcio, una tv… ma ormai i soldi sono sempre meno e le occasioni diminuiscono…

Quindi perché i festival jazz ? quelli piccoli, nicchie di contenuti musicali, artistici, umani e anche turistici (non è una così brutta parola se usata in modo costruttivo, tipo “i suoni delle dolomiti”)…
Perche..? Perchè bisognava trovare il modo di dare a qualcuno del denaro, non sempre sono appalti, cattedre, ospedali….no si può anche solo strappare a chi l’ha creata una manifestazione e darla da gestire al proprio figlio, alla propria amante o qualcuno che il partito ha deciso che deve essere “sistemato”...

L’ho vissuta sulla mia pelle questa violenza, questo pattume culturale, becero e privo di una qualsiasi dignità…. Serve una coscienza, forse non di classe, ma una coscienza si, altrimenti non sparirà solo Ceglie, Pavone ed altri Open Jazz… ma anche Clusone o S.Anna Arresi…..o peggio verranno ripensati come allegri e spensierati aperitivi dove deambulare tra un accordo di piano ed un paio di libri da scambiarsi (ma non da leggere), credendo di essere immersi nella cultura con qualcuno che ci spiegherà poi come tutti noi non abbiamo capito nulla del mondo che sta cambiando.


JfI: Cosa spinge un musicista a tenere vivo un Festival jazz nell’Italia di oggi?

MB: Mah, forse la passione o la necessità d’impedire che qualche speculatore se ne impadronisca, anche l’utilità di sviluppare propri progetti perché no, ma che ad ogni modo credo ancora legittimo e utile (senza l’euro jazz non avremo cominciato una collaborazione con Berne). Di certo non il denaro quello se vuoi fare un festival con un’idea forte, non di consenso, non potrai che usarlo per la manifestazione.  


JfI: Ma è possibile che in questo paese ci stiamo abituando all’idea che le istituzioni e la ricerca culturale siano agli antipodi? 

MB: Temo che siamo ormai ben oltre quanto dici, non c’è neanche stata una discussione, sto aspettando quando ci si desterà scoprendo in che stato siamo, dove siamo….ma questa classe politica è in grado di percepirlo ? vorrei dirti si, non sai quanto lo vorrei, ma temo che ce la stiamo raccontando tra di noi questa miseria. Altrove si parla di Reality e legittimo impedimento e tutto con la stessa passione, negli stessi contesti, con la stessa miseria.


JfI: Tu hai fatto tournée in diverse parti del mondo, e collabori con musicisti internazionali. Questo ottuso atteggiamento di chi detiene il potere, è “una storia tutta italiana”? 

MB: Con tutta l’umiltà che posso metterci, credo proprio di si.
La situazione almeno per quanto riguarda la musica e l’arte, solo in Francia, Germania o Olanda, è del tutto diversa. Il rispetto e la comprensione di quanto ciò sia una risorsa per la comunità in quei luoghi è percepito molto più chiaramente, qui non solo non è percepito dal cittadino medio, ma la classe politica piano piano l’ha trasformata in una risorsa “promozionale” per se stessi….come se Wagner o Marsalis esistessero principalmente per permettere a qualcuno di mettersi in mostra di riflesso.    


JfI: Secondo te, come mai pochissimi musicisti italiani hanno accolto questa discussione? Non dovrebbero essere loro i primi ad avere interesse nella salvaguardia della "biodiversità" nel jazz? 

MB: Mah, qui tutti tengono famiglia, i musicisti/strumentisti, specie i jazzisti (quelli di oggi, quelli italiani) con una cultura più propensa a “fatemi suonare, a me va bene così..”
Difficilmente vedono, capiscono come il denaro muova anche interessi personali dietro finte manifestazioni culturali.
Difficilmente comprendono ciò che il free, il sessantotto, la coscienza di classe insegnava che siamo tutti sfruttati. Non sto facendo un trito ragionamento marxista, ma penso soprattutto a testi fondamentali, come quelli di Leroy Jones o Comolli, Carles… non siamo in America, non siamo neri….? Quindi non possiamo essere comunque sfruttati….?

È una lettura troppo banale…?  Forse, ma a non vedere cosa stava succedendo, non ci si è accorti che qualcuno con dei festival jazz è diventato ricco, che altri usano meno della metà del budget per organizzarlo, che nessuno è in grado né ha voglia di infilarsi in una critica di questo tipo, o sul progetto culturale (quando c’è) o a cosa ci può essere dietro a determinate operazioni. Sto parlando della maggioranza, certo che so che molti musicisti e giornalisti condividono queste riflessioni, ma forse quelli che possono permetterselo e che hanno scelto una coerenza intellettuale. 


JfI: E la critica specializzata, si schiera al fianco dei musicisti in cui crede, fornisce feedback negativi a progetti deboli o, piuttosto, è assente? 

MB: C’è pigrizia, stanchezza nella critica… poi c’è quella guidata che deve promuovere qualcosa o qualcuno, stessa cosa per i festival.
Fingere di non vederlo è da ingenui o illusi, potrei accettare più semplicemente di non avere talento ma visto che molti di quelli come te, hanno sentito in questi anni che qualcosa c’è, diventa pesante “resistere” a questa onda di qualunquismo e a volte anche di interessi privati. 


JfI: Il rimedio all’omologazione culturale, dovrebbe partire dai musicisti stessi, dai critici che non si schierano abbastanza o dal pubblico che, finché l’educazione musicale nelle scuole dell’obbligo italiane sarà ferma al flautino ed al triangolo e la TV deterrà il potere, dovrà fare una fatica doppia? 

MB: Secondo me è che non si avverte nemmeno il problema.
Io insegno, il mio rapporto con gli allievi è prima di tutto umano, parlare di Davis o di Peter Gabriel di Sartre o di Tolkien mi sembra naturale, ma loro sono come dire “spenti” nessuno li ha mai innescati, accesi. C’è una scuola, un contesto sociale amorfo, finto, privo di curiosità… che li priva di quella naturale propensione a cercare. La musica nelle scuole ? i licei musicali ? meglio tacere e non dire cosa c’è dietro a tutto questo vuoto…..chissà cosa direbbe Pasolini oggi ?


JfI: C'è stato un momento in cui l'impegno sociale e la ricerca culturale era voluta e sentita da tutti (penso agli anni Settanta). Poi c'è stato un declino dei sogni e l'affermazione della mercificazione di tutti i valori (ed intendo gli anni Ottanta). Ora c'è questa frattura, che sembra indolore, che in realtà nasconde la malattia di non pensare a come stiamo ed offre la cura nel fare i soldi con un gratta&vinci o con uno scoop pecoreccio. Esiste ancora una speranza nel futuro del jazz? 

MB: Per me è come disse Samuel Beckett, io suono perché non so fare altro (non parlo di tecnica, o di sopravvivenza economica) ma di ciò che da un senso alla mia vita, di ciò che mi rende “libero”. A quel punto poco importa il resto, ma credo, citando Tolkien, che “c’è sempre speranza”, anche per il jazz quindi.



JfI: Non ho mai pensato che una musica come il jazz potesse morire, e tutte le volte che l’ho sentito o che l’ho letto, la musica che amo ha sempre dimostrato una vitalità inaspettata. Ma di questi tempi…
Tu pensi che si debba iniziare a scavare qualche fossa? 

MB: No non ancora, dobbiamo solo evitare di diventare autoreferenziali, di chiudersi in piccole nicchie, di essere confusi con i prodotti da salotti televisivi, ciò che è finto credo sia destinato a non sopravvivere. Ci sono musicisti nella nostra “categoria” che da tempo hanno trasformato il suonare in mettere in mostra ciò che sanno fare, ecco non dobbiamo inseguire quel modello credo sia lì l’errore.
E quello di una certa critica di non saper vederlo o per limiti o per opportunismo. 


JfI: Per salvare il jazz – e soprattutto le nostre coscienze – pensi che dobbiamo andare in guerra? 

MB: Si dovrebbe sapere chi è il nemico però….che a volte è dove meno te l’ho aspetti, spesso vicino a te.


JfI: Personaggi come Peppo Spagnoli, patron della Splasc(h) che ha pubblicato gran parte dei tuoi lavori, sono in via di estinzione, purtroppo, ma fin’ora le tue produzioni hanno sempre goduto di buona distribuzione di ottimi riscontri critici, eppure la presenza dei tuoi gruppi dal vivo è cosa rara nei cartelloni delle manifestazioni italiane.
Secondo te il motivo è culturale, politico o “semplicemente” imprenditoriale, per il modo in cui s’intende la produzione dai gestori di locali, che sono spesso anche i nuovi direttori di Festival jazz? 

MB: Si collega a quanto già detto, panorama di festival appiattito, privo di coraggio, organizzatori che mirano al facile consenso, al mero guadagno, una certa critica che ha ridefinito “l’idea d’immagine” del jazz, quindi serve suonare standars e avere una cantante figa… un po’ come per i gruppi rock da birreria, che devono fare per forza le cover. L’originalità non è più un valore per quel tipo di mercato. Se dovessi guardare le recensioni avute nella mia vita dovrei aver fatto migliaia di concerti e guadagnato parecchio… 


JfI: L’ultimo lavoro degli Enten Eller – Ecuba, Splasc(h) 2010 – vede la presenza di Javier Girotto, come voce speciale aggiunta ad un progetto unico. L’ultima volta che avete avuto un ospite di rilievo, anche la critica internazionale se n’è accorta. Cosa ci dobbiamo aspettare da questo ultimo disco?

MB: Niente, noi siamo contenti del lavoro, di come Javier si è riconosciuto nel progetto, come accadde del resto con Tim Berne, il resto viene dopo. Quando suono o penso un progetto non faccio calcoli di quanti concerti porterà quel musicista se fa il cd con noi… non né sono capace né m’interessa… in “Euclide” suonò Achille Succi, Jazzman in Francia gli diede cinque stelle, eppure l’esterofilia della critica italiana notò di più Berne… potrei raccontare aneddoti imbarazzanti rispetto alla critica, da molti ho imparato cose importanti riguardo quel che avevo suonato (Sessa, Martinelli, Leonardi, Buttafuoco, Bazzurro), in altre situazioni ti chiedi se hanno idea di cosa sia un do maggiore.


JfI: Negli ultimi anni la tua produzione ha avuto uno sviluppo esponenziale, superando le barriere del supporto fisico (CD, DVD, Book) così come fai nella tua musica, abbattendo gli steccati tra stili e musicisti. Cosa c'è nel futuro immediato di Massimo Barbiero? 

MB: Suoniamo a breve al festival di Valladolid in spagna con Enten Eller, poi alcune cose con Odwalla, altre in duo con la cantante Rosella Cangini ed una danzatrice, probabilmente un nuovo progetto da incidere quest’autunno (molto particolare) ma aspettiamo di finirlo. Anche se il problema è che non si suona, suonano sempre gli stessi e suonano le stesse cose, la visibilità è minima, cd come “Marmaduke” sono stati ignorati dalla top ten dello scorso anno (nonostante recensioni stellari), certo io sono finito tra i migliori batteristi (probabilmente convogliando il mio solo Nausicaa, Odwalla e Marmaduke).

Forse Enten Eller meriterebbe qualche attenzione in più, no? La recensione di Daniela Floris ha colto bene secondo me il senso del cd, così come si stupì del fatto che Odwalla si vede troppo poco in giro… Ma a parte la solidarietà e la stima rimane il fatto che rispetto alla mole di lavoro svolto si suona troppo poco…

Scusa lo sfogo, speriamo che questa volta qualcuno in più si accorga del lavoro fatto. 


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tutte le immagini sono di
Paul Klee 1879-1940

tutte le foto sono di
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