mercoledì 14 maggio 2008

Io & Chet Baker, vent’anni fa.

0. Intro
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Chet Baker


Oggi,
in questa stessa notte di vent’anni fa,
una telefonata anonima agli agenti del commissariato di Warmoesstraat, segnalò il ritrovamento di un corpo senza vita sul marciapiede laterale dell’Hotel Prins Hendrik di Amsterdam.
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Gli agenti intervenuti, scrissero sul rapporto che il corpo era stato ritrovato di fianco ad uno di quei caratteristici paletti allineati sul marciapiede, riverso sul fianco destro in posizione fetale, con una maglietta a maniche corte ed un paio di pantaloni gessati. 
Il cranio era fracassato ed il viso ricoperto di sangue.
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Accanto al cadavere c’erano un paio di occhiali dalla pesante montatura in tartaruga.
Le condizioni del corpo sembravano di un uomo sui trent’anni, la sua posizione e lo sfondamento del cranio, fecero pensare che fosse caduto da una delle finestre dell’albergo.
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Non avendo documenti, non fu possibile identificare il cadavere.
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the-end
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Solamente la mattina dopo, Venerdì 13 Maggio 1988 alle ore 08:00, l’ispettore Rob Bloos si presentò all’albergo per una breve indagine e per chiudere il rapporto.
Quando la receptionist disse che il cliente di una camera, chiusa dall’interno, non rispondeva alle sue telefonate, l’ispettore decise di forzare la serratura ed entrare.
Nella stanza il letto era intatto, ed era presente un solo bagaglio, una custodia rigida di una tromba.
All’interno c’era il dorato strumento, un orologio, cinquanta fiorini olandesi, un braccialetto, un accendino, meno di un grammo di eroina ed un pezzo di carta con sopra scritto Chet Baker.
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Il resto che si conosce sulla figura di Chet Baker è Storia, mistero, gossip o leggenda.
Ma la musica di Chet è reale, incisa una volta per tutte tra i solchi di centinaia di vinile.
Più reale forse dell’uomo che l’ ha interpretata, del quale, ai più, è stato possibile conoscere solo un’immagine.
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Questo che segue è il mio ricordo di Chet e della sua bellissima musica,
in forma di ballata.
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Chet-on-Poetry

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1.     Deep in a Dream
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“... then from the ceiling, soft music comes stealing;
we glide through a lover’s refrain.
You’re so appealing, that I’m soon revealing
My love for you over again...”
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Ho conosciuto Chet una sera, alla fine del novembre 1987.
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Io che, appena diciottenne, ascoltavo il punk dei C.C.C.P. che in quell’anno avevano pubblicato “Socialismo e Barbarie”, io che in maggio avevo visto a Firenze i Litfiba del Live registrato sul disco “Aprite i Vostri Occhi”, io che avevo appena comprato “Kiss me Kissme Kiss me”  dei The Cure e “Tender Prey”, l’ultimo di Nick Cave and the Bad Seeds.
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Io amavo la musica, ma non conoscevo il Jazz, e Chet Baker non sapevo nemmeno chi fosse.
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Ma Alice si, e non ci mise molto a convincermi "lo devi sentire cantare…” mi disse, “…ti farà innamorare con una sola nota.”
Lei, con quegli occhi maliziosi e quella voce morbida e musicale, avrebbe fatto fare qualunque cosa a chiunque.
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The incredible C B
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Il locale si trovava in Corso Vittorio Emanuele, ricavato dallo scantinato di un vecchio palazzo romano, piccolo e pieno di fumo. Noi arrivammo tardi, a concerto già iniziato e, nonostante fosse pieno di gente, si sarebbe potuto sentir cadere uno spillo.
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I musicisti erano praticamente in mezzo alla gente, con i tavolini attaccati alle ginocchia. Quello che stava suonando aveva una chitarra, una rada barbetta, pochi capelli unti e lunghi e un assurdo maglione da sci, verde e celeste.
Dietro, in piedi, un ragazzo con una folta capigliatura riccioluta, l’unico di loro in giacca e cravatta, sembrava appeso al contrabbasso, la testa buttata all’indietro e gli occhi piccoli, trasformati da delle lenti molto spesse.
Il terzo, seduto con una tromba appoggiata sulle gambe, era così assorto che sembrava dormisse. Le mani gonfie, una sigaretta dimenticata tra le dita, stivali da cowboy e degli occhiali troppo grandi per il suo viso scavato, segnato come una roccia graffiata dal mare dopo millenni di vento.
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Chet live
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Poi, senza aprire gli occhi e muoversi troppo, cominciò a sussurrare
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“… la sigaretta mi brucia, mi sveglio
la mano non è ferita ma è il mio cuore che soffre;
ma noi ci ameremo ancora come facevamo una volta,
quando io sogno, profondamente te…”
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Mi persi un po’ tra le parole che trovavo sdolcinate, ma era il suo modo di cantarle, come fossero dedicate ad ognuno di noi, come se le stesse dicendo piano, intimamente, ad ogni singola persona che si trovava lì, che mi catturò. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, neanche quando Alice mi trascinò tenendomi per mano, facendosi largo tra un mare di gente, fino a raggiungere un tavolo vicinissimo a loro tre, con su scritto “Riservato Miss J”.
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In quel momento, molto lentamente, il tipo seduto con gli occhiali alzò la sua tromba. Forse per un gioco di luci, o perché eravamo molto vicini, ma quel movimento mi affascinò, svelandomi tutta la bellezza di quello strumento.
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chet-w-tp
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Curve morbide, levigate e perfette, tubi che si incrociano e si ritorcono su se stessi con una naturalezza che non svela complessità, e poi, la lucentezza.
Mille riflessi la fanno esplodere, tra guizzi di luce che si rincorrono accecanti e oscuri lati d’ombra, invertendo le parti in un cambiamento in continuo movimento, su una superficie sempre cangiante, che riflette lui e, cattura e deforma tutti noi.
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Poi, avvicina la tromba alle labbra e, senza alcuno sforzo, comincia a suonare.
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Attacca con un soffio caldo, da cui nasce un suono basso, rotondo, soffuso e continuo.
Gli occhi sempre chiusi e le dita, gonfie, che si muovono incredibilmente agili, creando una variazione di suoni che sembra impossibile fare usando solo tre tasti.
La tromba non segue la melodia del cantato, soltanto rifacendolo, ma scende in profondità, esplorando stanze nascoste che la voce non aveva considerato, ricreando un’atmosfera di intima complicità, di dialogo privato, come se suonasse solo per me. Solamente per uno di noi alla volta.
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Poi una voce alle spalle, normale e quindi sgradevole, mi riporta alla realtà “Seduto, per favore”.
Non me ne ero neanche accorto, ma mi ero innamorato.
 .chet

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2.     Zingaro
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“…com seus mesmos tristes, velhos fatos
que num àlbum de retratos
eu teimo em colecionar … 
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Non mi sono ancora seduto che il tipo con la tromba, incurante degli applausi, riprende a suonare.
Subito cala il silenzio, e in tutto il locale è come se il tempo si fosse fermato.
Ci sono solo io, lui e il suo suono.
Nasce una melodia lenta ed avvolgente, che Alice in un sospiro mi presenta come “… bossanova …”.
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Chet on-light
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La tromba inizia lenta, indietro nel tempo anzi, sembra addirittura fuori.
In realtà, ma questo lo capirò solo dopo sei o sette minuti, il suo suono è tra il tempo, decidendo se spingerlo avanti o obbligare tutti ad attenderlo, a pendere dalle sue labbra.
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Disegna il tema, con un’esecuzione apparentemente noncurante, distaccata e proprio per questo profondamente affascinante, con un suono senza vibrato, quasi parlato, facendo solo le note necessarie, senza aggiungere niente, come se quella fosse la prima ed ultima volta che lui suonasse quella canzone.
Poi, con un arpeggio leggero entra la chitarra, ripete il tema tessendo un tappeto di note minime, cristalline, semplici ed ariose che dialogano con la tromba, che replica il pezzo come prima, eppure ancora nuovo.
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thinking-chet
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Accanto a me Alice, ad occhi chiusi, sentendo la musica con tutto il suo corpo, in maniera naturale come se stesse respirando, canta a voce bassissima
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“…vou colecionar mais um soneto…
outro retrato em branco e preto
a maltratar meu coração…”
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È solo quando la chitarra va in assolo che, doppiando il tempo, la canzone si colora di tinte caraibiche, di malinconie latine e ballabili, permettendo cosi alla tromba di interpretare la melodia liberandola, con la stessa bellezza e fragilità del volo di una farfalla.
Per ultimo, il tipo al contrabbasso ricostruisce il tema dalla base, dal tempo e dal suo ritmo, dalla carnalità delle vibrazioni, che si spandono intorno e toccano delicatamente le corde più profonde, tornando all’origine, dove tutto è nato. 
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In quel momento, finalmente, il tipo con la tromba apre gli occhi piccoli, vispi e furbi, come quelli dei bambini sanno essere, ma su un viso stanco e troppo vecchio. Poi, guardando nella nostra direzione, sorride, stirando la pelle del suo viso finora accartocciata, trasformando la sua bocca piccola e ben disegnata in una stretta fessura, dedicando un affascinante sguardo alla mia compagna.
Nasconde una tragica bellezza quello sguardo, la disperazione dei vinti e la forza di chi deve per sempre continuare a provare, per non morire dentro, per rinascere ogni volta.
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Finisce il pezzo, lui si alza, ringrazia il pubblico e se ne va, lasciando sulla sedia la sua tromba, ammaccata, graffiata e bella quanto lui.
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trumpet
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Il pubblico applaude, fischia, batte i piedi e lo chiama per nome in un tripudio di follia, tutto per vederlo, per rivederlo ancora una volta.
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E infatti lui rientra.
Con un sorriso compiaciuto si offre ancora a noi, ringrazia, prende con dolcezza la sua tromba, si siede e, in un rispettoso silenzio, si accende lento una sigaretta.

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3.     My Funny Valentine
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Chet PP
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Le luci sul piccolo palco sono spente, solo il pulsare della brace della sigaretta che si infuoca e si affievolisce mi ricordano che il tempo passa.
Sempre al buio, pianissimo in crescendo, parte il contrabbasso. Un suono legato, lungo, che con l’arco trascina le note in una lenta melodia, che passa dall’acuto al grave con una consistenza terrena, reale, quasi tangibile.
Poi la chitarra accenna appena il tema. Una breve sequenza di note che si insinua dentro, con la stessa semplice intensità di quelle musiche che, una volta ascoltate, restano in testa tutta la giornata.
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“…Myyy…
funny Valentine,
sweeet
comic Valentine ...
youu maaaake me smiiile with my heart...”
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Chet sings
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Quando Chet inizia a cantare, gli altri due cedono il passo, restando nell’ombra di un accompagnamento discreto, riconoscendo alla voce la stessa valenza di uno strumento, con una musicalità ed un senso del ritmo che gli permette di andare avanti da solo, con la bocca attaccata al microfono come se stesse sussurrando nell’orecchio della sua amata.
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Allunga le vocali quasi a voler rendere interminabile quella dedica d’amore
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“… yooour looks are laughable,
unn... photograa... phable
yet, you’re myyy fa-vo-urite work of art...”
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Tocca di nuovo alla chitarra il ruolo di elevare la musica ad uno stato etereo, un tocco limpido, luminoso, lieve e quasi azzurro, che trasporta la canzone ad un’altezza irraggiungibile per qualsiasi strumento di legno. Riparte dalla prima battuta e, in un assolo dondolante, mi dona l’immagine di un amore che conoscevo, ma di cui non conservavo memoria.
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Chet
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“… is your figure leess thaan greek?
iiiis your moouth a little weak?
... when you ooopen it to speack,
aa-aaare you smart...”
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É solo quando il pizzicato denso e scuro del contrabbasso mi vibra dentro che mi ricordo di non essere solo con Chet. 
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Guardo accanto a me Alice, il suo profilo africano forte eppure cosi armonico, le sue labbra lisce e arrotondate come le dune di un deserto sconosciuto, affascinanti e pericolose.
Ha i capelli raccolti che scoprono la linea del collo, che parte dalla spalla e sale, perfetta, fin dietro l’orecchio, dove la pelle è delicata e sensibile. 
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Il solo del bassista fa tornare la canzone reale, disegna le forme e colora la pelle della mia Valentine, che non è più astratta nella mia mente, ma accanto a me in carne e sangue, e mi fa pulsare di vita.
.Chet plays
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Poi lei chiude gli occhi e, un secondo dopo, il suono della tromba riempie il locale e tutti gli spazi vuoti dentro di me, trasportandomi fuori da tutto, con un suono a volte incerto, caldo e naturale come il vento che si ode tra le foglie, come la brezza che si gode di fronte al mare.
Ripete l’inciso con poche note inevitabili.
Eppure c’è dentro tutta la canzone, una melodia di quelle che non si possono dimenticare, densa e rassicurante, sensuale e romantica come solo certi ricordi sanno essere.
Lui incarna tutte e due le facce della canzone, la porta in alto rendendola spirituale come pura poesia e la riporta nella realtà, tra le lenzuola ancora tiepide di un letto vuoto, donandogli carnalità.
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Lui è la canzone.
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old-chet
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Dopo, in un sospiro riprende a cantare
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“… don’t change a hair for me
not if you care for me
stay, little Valentine, stay...
each day is ... a Valentine’s day...”
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Termina la frase delicatamente, come uscendo da dentro di lei, e non c’è stacco tra le sue parole ed il silenzio che segue. Restiamo tutti ancora assorti, come se quel silenzio facesse parte della sua musica. Lui rimane piegato sul microfono, le labbra che ancora lo toccano, gli occhi chiusi. Solo dopo qualche secondo, interminabile, di quiete, il pubblico si rende conto che la canzone è terminata.
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 Tra gli applausi Alice si alza e mi dice
“…vieni, ti faccio conoscere Chet.”
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Chet

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Note alla selezione musicale:
mi sarebbe piaciuto registrare quel concerto ma, all’epoca,
la mia passione doveva ancora nascere e questo blog non era che un sogno inutile.
Perciò la scaletta, nonostante riprenda quei brani, è così composta:
 Chet-long

  1. “Blue room”, only vocal – 1’25”
from Deep in a Dream the Ultimate Chet Baker Collection
Pacific Jazz 2002

  1. “Deep in a Dream of You” – 6’38”
 from LP Deep in a Dream of You - Moon MLP 026
Chet Baker (tp, v.) Jacques Pelzer (fl) Harold Danko (p)
Isla Eckinger (b)
Rome, Italy, 1976

  1. “Portrait in Black and White (Zingaro)” – 15’30”
from LP Memories, Chet Baker in Tokio – Paddie Wheel K28P 6491
Chet Baker (tp, v.), Harol Danko (p), Hein Van Der Geyn (bass),
John Engels (drums)
Tokio, Japan, June 14th, 1987
4. “My Funny Valentine” – 7’15”
from LP Chet Baker Sings Again – Timeless SJP 238
Chet Baker (tp, v.), Michel Graillier (p), Riccardo Del Fra (bass),
John Engels (drums)
Monster, Holland, October 8 th, 1985

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