lunedì 28 gennaio 2013

Mario Schiano _ All Of Me _ Sings My Funny Valentine, 1999


Uno dei dischi più interessanti, a mio parere, ed intensi del 2012, non è solo un doveroso omaggio a Mario Schiano, uomo curioso e musicista tra i più attivi e sorprendenti e, forse proprio per questo, artista anomalo in un panorama che privilegia la ripetitiva uniformità collaudata, ma riporta alla luce, sotto forma di ghost track, anche uno stralcio fondamentale della sua poetica: il sincero amore e la profonda conoscenza del jazz tutto, trasmutato attraverso l’utilizzo della propria voce nella forma più originale e lontana dall’imitazione passiva degli stilemi afroamericani.


Di solito, quando si scrive «voce» per un musicista, s’intende il suono e la riconoscibilità del suo strumento, e sarebbe termine adatto soprattutto per il sassofono di Schiano, che ha giocato un ruolo unico nella evoluzione del jazz in Italia, ma in questo caso intendo proprio la sua voce come canto, in quanto l’ultima traccia di If Not è quella Song, già pubblicata nel febbraio del 1977 a conclusione del disco “Test”, registrato da Mario con quattro giovanissimi musicisti romani tra cui Maurizio Urbani, fratello minore di Massimo, che enuncia in maniera unica, ironica e sinceramente iconografica, la più disincantata delle utopie: il jazz non ha confini di sorta, il jazzista non ha limiti di forma.


Cito da Francesco Martinelli «Schiano ha descritto il rapporto con il sax con una frase che vale la pena di riportare: "Lo strumento mi risultava sempre come qualcosa di magico, un prolungamento cromato dell'esofago, che lasciava cantare fuori le cose di dentro". Si manifesta qui un rapporto con la musica che è viscerale nel senso più pregnante: tornano alla mente le pagine di Barthes dedicate alla grana della voce, "qualche cosa che è direttamente il corpo del cantante, trasportato in un solo movimento alle vostre orecchie, dal fondo delle caverne, dei muscoli, delle mucose, delle cartilagini...come se una sola pelle tappezzasse la carne interna del cantante e la musica che egli canta". Nell'opposizione teorica tra feno-canto e geno-canto introdotta da Julia Kristeva e presa da Barthes come punto di partenza, il geno-canto è "lo spazio in cui i significati germinano dal dentro della lingua e della sua stessa materialità... un gioco significante estraneo alla comunicazione, alla rappresentazione, all'espressione... non ciò che si dice, ma la voluttà dei suoi suoni significanti". »


È nota la fascinazione per l’avanspettacolo, per la tradizione musicale e per l’atmosfera dei night club di Mario Schiano, probabilmente retaggio delle proprie origini ma, più sicuramente, mezzo per affermare la sua iconoclastica partecipazione alla storia culturale di questo paese, tanto quanto è conosciuta, anche se raramente ricordata, la sua attiva presenza sui palcoscenici d’avanguardia, la sua irriverente e graffiante ironia culturale, la sua contrapposta posizione rispetto ai potenti ed i puristi del jazz.


Mario Schiano è stata la vera cartina tornasole del jazz italiano, sempre improvvisamente dall’altra parte della barricata che l’establishment dell’italietta musicale tendeva a costruire.
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Uomo incompreso del «’o vero free» già a metà degli anni Sessanta, mentre i jazzisti si prodigavano ancora nelle più comuni registrazioni delle colonne sonore cinematografiche o della musica d'atmosfera a metraggio; musicista singolare e cane sciolto nei confronti dei gruppi orchestrali che accompagnavano i cantanti più popolari, o infoltivano le orchestre RAI, ma che raramente vedevano i loro nomi stampati sulle copertine; coraggioso amante del Varietà e dell’avanspettacolo d’antan mentre, sul finire degli anni Settanta, le avanguardie cercavano gelosamente di mantenere a galla il loro status quo di modernisti in un immobile stagno creativo. Nessuna strada maestra, nessun compromesso, a qualsiasi prezzo. 
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Questo sembra essere il suo più sincero insegnamento.


Ma se della sua musica si è scritto, anche se mai abbastanza, è del suo rapporto con la forma canzone e con lo spettacolo più in generale che vorrei approfondire.

Già nel 1974 Schiano realizzò un «disco-spettacolo», o quello che probabilmente è il primo concept album inciso da un jazzista: Partenzadi Pulcinella per la Luna, che inizia proprio con un’apertura di sipario, si apre e chiude con una sigla da varietà e che ebbe anche una trasposizione televisiva operata da Tonino Del Colle, che generò non poche incomprensioni anche tra gli altri colleghi del jazz.


Nel 1978, dopo essersi confrontato con un disco in solo (AndHis All Stars), con l’anima dell’improvvisazione americana (Rendez-vouscon Sam Rivers) e con la scuola europea (AEuropean Proposal), infatti Mario Schiano decise, in maniera anacronistica, che era arrivato il momento di dover rendere omaggio alla grande tradizione della canzone americana, ed incide OldFashioned al sax alto, con un giovanissimo Antonello Salis al pianoforte.

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Dell’anno successivo è “Un Cielo di Stelle”, vero e proprio Varietà realizzato su vinile con l’inseparabile Vittorini. L’idea di fondo è questa: sul finire degli anni ’70, cominciano a sfumare le spinte culturali e politiche ed affiora l’arroganza, l’incompetenza e la voglia di successo fine a se stessa; due jazzisti falliti decidono di tentare la strada del Varietà e cercano di vendere il loro spettacolo ad un manager americano, accompagnato da due fidi impresari nostrani, guarda caso un perugino ed un bolognese. Gli impresari lasciano presto il teatro disgustati, mentre lo spettacolo finisce a scatafascio. I due musicisti se ne vanno sconsolati chiedendosi che cosa non ha funzionato.
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Molto più che un disco, una concreta ed urticante visione degli edonistici anni ’80.
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Oramai la sfida era lanciata, con la critica che appena appena si divertiva per lo spettacolo, ma che non riusciva nemmeno a fare un ragionamento su quelle schegge di follia creativa. Per il disco successivo, “Swimming Pool Orchestra”, Mario Schiano decise non solo di proseguire con l’ironia della provocazione (due musicisti sono chiusi in uno studio di registrazione fatiscente, dove il fonico cerca di riparare le tubature dell'acqua. I due provano nell'attesa, litigano, fino a quando lo studio si allaga e il disco non si può più fare), ma di affondare il colpo, invitando in studio Umberto D’Ambrosio, in arte Trottolino, un idolo dell’avanspettacolo, oramai dimenticato e che morirà alcuni mesi dopo, facendogli interpretare il testo di ‘O Vero Free (‘O vero free era chillo ‘e ‘na vota, tuccava ‘o core ‘o vero free…).
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Dopo aver cantato per qualche minuto alla fine dell’album Test, nel 1977, aver suonato a modo suo gli standard americani con Salis, aver omaggiato il Varietà e l’avanspettacolo con due lavori geniali, sarà solamente nel 1983 che Schiano si deciderà a ricordare gli anni del night, cioè quelli delle sue origini. Fu così che, in una decina di sedute, affiancato dal solito Vittorini, inciderà in maniera artigianale una manciata di canzoni italiane, omaggi al Maestro D’Anzi ed a Fred Bongusto, su 250 esemplari numerati e firmati di audiocassette: Mario Schiano e la Sua Orchestra – Premio Vongola d’Oro 1983. Un Must!
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Successivamente, Schiano ebbe ancora modo di mettere in pratica il suo sogno, perché un conto è ricostruire le atmosfere del varietà in un disco o reinterpretare le fumose canzoni dei night d’una volta su cassetta, tutt’altro è mettere in piedi un night club.
Nell’anno dello storico sorpasso del PCI sulla DC, in occasione della Festa dell’Unità di Roma, Schiano ricostruì un vero e proprio night anni ’50, chiamato “il Sorpasso”, anche in riferimento al film di Dino Risi, nel quale invitò i migliori musicisti italiani, da Gegè Munari a Carlo Pes, da Antonello Vannucchi ad Oscar Valdambrini, da Giorgio Rosciglione a Lino Quagliero, che ribattezzò “I Primi”, giocando sul titolo del quotidiano comunista che così titolava a tutta pagina i risultati di quell’elezione.
Su quel palcoscenico, sotto la conduzione ironica e scanzonata di Nicola Arigliano, passarono i più famosi cantanti dell’epoca, come Umberto Bindi, Tony Dallara, Betty Curtis… e Mario gongolava come un bambino alla festa del paese.
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Ma veniamo al 1999 ed all’ultimo omaggio alla canzone registrato da Mario Schiano, questa volta per l’intero disco senza il suo sax, ma solo con l’ausilio della sua particolarissima voce: quel My Funny Valentine registrato con il suo amico di sempre, Gegè Munari alla batteria, oltre a Cicci Santucci alla tromba, Maurizio Giammarco ai sassofoni, Antonello Vannucchi al piano e Giorgio Rosciglione al contrabbasso.
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Sicuramente ci sarà chi penserà che Mario Schiano non sapeva cantare, come erano tanti quelli che pensavano che lui non sapesse suonare… per me sentire la voce di Mario è un’emozione così forte che sento il dovere di condividere con chi ha la capacità di sentire, oltreché ascoltare.
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Chiudo prendendo a prestito ancora una volta le parole di Francesco Martinelli, che Mario lo ha conosciuto, studiato e capito: «Il cliché della presunta carenza di tecnica strumentale da parte di Schiano, una delle sue molte eresie che amava sventolare sotto il naso dei puristi, è stata usata per schivare i problemi posti dalla sua musica. L'accusa ricorrente di "non saper suonare il blues", a confronto delle periodiche lodi rivolte a crudi imitatori di passati stili e musicisti rivela non solo una mancanza di comprensione della musica di Schiano, ma una serie di fraintendimenti di base della musica afroamericana. In mancanza di essa, tali critici non sono ben posizionati per discutere i rapporti tra musica europea e jazz. 

I musicisti che mettono in discussione confini e concetti vengono sempre affrontati sul piano tecnico: sono incapaci di suonare o dotati di un inutile virtuosismo. Uno schema "a doppio vincolo" applicato a Charlie Parker e Thelonious Monk, ripetuto con John Coltrane e Albert Ayler, riciclato ancora con Evan Parker e Derek Bailey. Incapace di mettere in discussione con la musica il proprio ruolo, il "critico" si rifugia nell'attacco tecnico, apparentemente neutrale, per scappare dai problemi posti dalla musica. Mancanza di tecnica e tecnica eccessiva convergono sempre, in questi attacchi ispirati da una falsa ideologia, nel peccato capitale e indicibile, la mancanza di "swing”».


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Credits:

My Funny Valentine

Label: Splasc(h) Records
Catalog# CDH 697.2
Format: CD
Country: Italy

Recorded in Rome
on March 2, 5 and 11, 1999

Mario Schiano (vocals),
Cicci Santucci (trumpet, flugelhorn),
Maurizio Giammarco (tenor sax, soprano, flute),
Antonello Vannucchi (piano),
Giorgio Rosciglione (bass),
Gegè Munari (drums)


Tracklist:

1)     My Funny Valentine – 2:31
2)      Somebody Loves Me – 2:22
3)      All Of Me – 5:19
4)      Out Of Nowhere – 3:51
5)      Embraceable You – 3:54
6)      I Can’t Give You… - 4:37


7)      ‘S Wonderful – 1:13
8)      Ain’t Misbehavin’ – 2:54
9)      Bye Bye Blackbird – 4:43
10)  It Had To Be You – 3:56
11)  Yesterdays – 5:05
12)  It Don’t Mean A Thing – 2:33
13)  You Do Something To Me – 2:03


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Art by Jean Dubuffet
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6 commenti:

  1. Grazie per il lavoro che fai su Schiano. È un musicista di cui fatico a trovare i dischi e soprattutto, come dici giustamente tu, di cui non si scrive mai abbastanza. Ho un'immagine di lui ora grazie alle tue parole qui e in post precedenti.

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  2. Era uno straordinario entertainer, altro che; in un lontano Festival di Noci, l'anno che venne a mancare Massimo Urbani con Mario che, singhiozzante, diede la notizia alla grande tavolata dei musicisti presenti, lui, in una sorta di dopo festival, faceva un incredibile organo-bar, cantando un po' di tutto, dai classici (e meno classici) napoletani a quelli americani, con la sua voce unica.
    Di questo lavoro non sapevo nulla, una grandissima emozione.
    ROBERTO DEL PIANO

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  3. very good album! thanks much!!!

    Igor

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  4. Il commento di Roberto del Piano dice già tutto: io mi accodo, e rilancio con la speranza di un nuovo upload per il "Vongola d'oro '83". Please....

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  5. salve,

    Bellissimo brano.acuto e intelligente.
    Si rende ancora troppo poco omaggio alla sua memoria....

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