lunedì 19 novembre 2012

Gianni Basso & Fabrizio Bosso _ Two Generation, 2003


Un giorno, tutti parleranno della PHILOLOGY come di una di quelle etichette mitiche, fondamentali per la Storia del jazz suonato in Italia e di Paolo Piangiarelli, l’uomo che l’ha voluta, creata e sorretta per anni, come di un produttore illuminato e coraggioso.
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Come saprete, e come ho raccontato più volte, la documentazione su disco del Jazz italiano vive la sua stagione d’oro tra gli anni ’70 e gli inizi dei ’90, grazie soprattutto all’impegno ed alla passione di alcuni “piccoli” produttori indipendenti, dal momento che le grandi major si sono interessate tardi - e sempre poco - al fenomeno.


Della HORO di Aldo Sinesio (1972), probabilmente la prima e che resta tra le più prestigiose, avrete sicuramente sentito parlare: io gli ho dedicato tutto lo spazio che meritano le sue scelte ed i suoi famosi confronti.


In quegli stessi anni (i master su nastro partono dal ’68 anche se la prima produzione su disco è del 1977) troviamo il pianista Tito Fontana, con la sua raffinata etichetta DIRE, che si prodigava ad incidere il meglio del Jazz di casa nostra.


Del 1975 invece, è la prima incisione della serie Jazz from Italy, curata da Lino Patruno e Giancarlo Pillot per la Carosello, che spazierà dal Jazz tradizionale agli inediti progetti di grandi solisti italiani, registrando molto spesso con ospiti internazionali di grande livello.


Nel 1976 nasce la Red Records di Sergio Veschi, che si contraddistingue per l’alta qualità artistica e tecnica delle sue produzioni e, subito dopo (1979) la Soul Note di Giovanni Bonadrini, che nasce in seno alla Black Saint di Giacomo Pellicciotti dedicata più rigorosamente all’avanguardia, al quale dobbiamo il merito di aprire al panorama italico un’importante finestra sulle produzioni jazz internazionali. 


Per ultima, solo in ordine di tempo, nasce la SPLASC(H) di Peppo Spagnoli, quasi casualmente nel 1982, che documenterà le varie realtà del nuovo Jazz italiano, dimostrando vera passione e vasta ampiezza di vedute registrando l’opera prima di Paolo Fresu, i debutti di Pietro Tonolo, Riccardo Fassi e Stefano Battaglia ma anche i grandi protagonisti del nostro jazz, come Gianni Basso, Guido Manusardi, Giorgio Azzolini, Gianluigi Trovesi, Mario Schiano etc, etc. 


A parte altre labels, con minore diffusione e di breve vita professionale, come la Ictus di Andrea Centazzo, la Gala Records, la CMC, la Cecma, la Pentaflower, la Bull Records e la Edi-Pan, praticamente introvabili sul mercato, roba da collezionisti, insomma, la Storia del Jazz italiano fino al secondo millennio è tutta qui. 


Una manciata di etichette con dietro un’idea ed un’etica di produzione, per la maggior parte in studio.


Questa è già una grande cosa per un paese piccolo come il nostro, dove per anni la musica Jazz è stata “ai margini” del music business, relegata sui piccoli palcoscenici e promossa solo sulla stampa specializzata, ma mancava il respiro del Jazz, l’invenzione unica e irripetibile, la documentazione del miracolo creativo che è la fonte di questa musica, «il momento quello» come ha detto quel grande poeta improvvisatore che è stato Victor Cavallo.


Poi finalmente, un uomo innamorato profondamente del Jazz, un fan appassionato dei grandi Maestri di questa che è, anche per me, la forma più bella di tutte le musiche, un personaggio unico e coraggioso, inventa lì sul momento, senza filtri o freddi calcoli di produzione, quella che è l’etichetta più vicina all’anima del Jazz.


Nel luglio del 1987, nasce la PHILOLOGY ed un giorno tutti parleranno di questa label come di una di quelle mitiche e di Paolo Piangiarelli come di un uomo straordinario.
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Un giorno succederà, sicuramente, mentre oggi sembra come se molti l’abbiano dimenticato. Io no, gli sono riconoscente e gli ho dedicato diversi post, molti dei quali pubblicati su Jazz from Italy versione splinder.0, il mio primo blog che non c’è più, per intenderci, e che ho deciso di rendere nuovamente disponibili, perchè importanti ed unici.


Come questa intervista realizzata nel settembre 2009,  appena pochi giorni la scomparsa di Gianni Basso, un altro grande che Paolo Piangiarelli ha copiosamente registrato in anni in cui, solita storia italiana, tutti quanti parevano averlo dimenticato.

Buona lettura e, ricordatevi di ricordare.


JfI: Paolo, la prima volta che hai registrato GB, era come co-leader, su "Italian Balladeurs" di Giovanni Mazzarino.

PP: Si, la prima produzione di Gianni Basso in casa Philology, me la propose proprio Giovanni Mazzarino, che aveva questo master che mi chiese di produrre.

Io amo la musica di Mazzarino, perchè è efficace e scritta benissimo, e Giovanni è sempre stato legato alla mia etichetta, perchè anche se povera, che non riesce cioè ad investire molto in pubblicità, è un'etichetta che ha dedicato tutto il suo lavoro a personaggi come Phil Woods, Charlie Parker o Chet Baker, con un impegno che trasuda passione per questa musica, e questo crea un rapporto soprattutto sentimentale con i musicisti che produco. Sai cosa mi dicono spesso i musicisti che produco? Mi dicono "Paolo, si sente che tu ci sei stato, che ci stai, si sente che sei uno di noi nel disco."

Ecco, questo fa la differenza con altre label cioè, il fatto che dietro alle produzioni Philology, c'è partecipazione, c'è emozione vera, c'è sempre una storia.
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JfI: Ed in questa storia, dicevamo, c'era anche Gianni Basso:

PP: si, un grande di cui io non avevo niente in catalogo, nonostante fosse un mio mito degli anni Cinquanta, quando Gianni ricreava la west Coast italiana, con Valdambrini e Dino Piana in quei dischi meravigliosi. Per cui, quando Giovanni mi propose quel master, io accettai con molto entusiasmo, anche se non ne ho venduti molti di quei dischi...

JfI: Poi hai iniziato il filone "A la France", che si è interrotto purtroppo al terzo capitolo:

PP: Che belli che sono quelli, sono veramente belli.
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JfI: Come è nato quel progetto:

PP: Il primo volume l'ho proposto io a Gianni, perchè ero affascinato dalla straordinaria bellezza di quella musica, ed è nato "Dall'Italia Con Amore", con Andrea Pozza (piano), Luciano Milanese (bass) Massimo Manzi (drums) in cui c'è quella bellissima versione di Pavane pour une infante défunte, di Ravel, che è una delle mie canzoni favorite, un brano che Gianni ha registrato in versione stomp, ma che se fosse vissuto ancora avrei desiderato farglielo registrare in versione ballad, t'immagini che potere commovente avrebbe tirato fuori la voce di Basso, cazzo?

JfI: Poi il progetto è proseguito:

PP: e si, perchè io sono un seriale e dopo il primo sarei arrivato anche a cinque o sei capitoli, di cui uno avrei voluto farglielo fare di ballads francesi tutte cantate, perchè Gianni era anche uno splendido crooner e quando l'ho sentito cantare gli ho detto che lo avrei registrato volentieri. Così lui, quasi per gioco, ha cantato una versione di Bedelia che è inserita nel secondo volume dedicato "A La france", quello in duo con Renato Sellani.

Ma non ho fatto in tempo, ecco perchè bisogna fare subito i dischi, perchè poi non li fai più.
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JfI: Basso & Sellani, come è stato organizzato quell'incontro tra due giganti del jazz italiano:

PP: Loro si sono rivisti in studio molto volentieri, perchè erano legati proprio da una speciale amicizia. Non dimentichiamo che Gianni ha avuto Renato in quello storico quintetto che ha aperto le strade al jazz moderno.

JfI: Cosa è cambiato nella loro musica e, soprattutto, nella loro poetica dopo cinquant'anni?

PP: Beh, c'è da dire che loro si sono conosciuti nel periodo storico in cui si potevano fare brani di quattro minuti al massimo, ed adesso i loro soli erano più distesi, come è possibile ascoltare ad esempio su "I Wish I Knew", registrata in una versione travolgente, mozzafiato, dove l'inizio del solo di Basso è qualcosa di potente, che deve più a Rollins che ad altri suoi idoli.
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JfI: Un ricordo personale?

PP: Guarda, noi stavamo insieme tre o quattro giorni in studio ed incidevamo tanto di quel materiale... Basso era contentissimo, perchè vedeva in questo il mio vero amore per tutta la sua musica. Era contento che qualcuno, oggi, volesse dedicare a lui venti, trenta, quaranta dischi, per documentare ancora il suo valore, per fermare su nastro la sua bravura, come ho fatto con Sellani.
Ti giuro, io gli davo tutto il massimo che potevo, in termini di rimborso, ma Gianni non mi ha mai fatto una richiesta, anche se lui sapeva quello che valeva ma a me non ha mai chiesto niente. E questo, oltre a riempirmi di orgoglio, mi affascinava.

Gianni ha rispettato una data di session con un tenore che non era il suo, che si era rotto, quella di S'Wonderful, ed ha penato parecchio perchè se tu vai a sentire il suono di Basso in quel disco è più duro, ruvido, non il solito suono, una vera rarità.
Io sono legatissimo a questo disco, che è l'ultimo della sua vita che ha fatto con me, con uno strumento che non era abituato a tenere in mano, diverso già dal peso. Eppure, per onorare l'accordo con me, è venuto con il tenore di un suo amico, perchè il suo era ad accomodare.
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JfI: Tu lo hai fatto partecipare a diversi progetti particolari, come a quello con Irio De Paula. Come ti è venuto in mente di organizzare quell'incontro?

PP: Irio alla chitarra acustica, a cinque o sette corde, con i polpastrelli nudi, non ha confronti con i vari Oscar Castro-Neves o tutti quei "metallici" che incisero la musica brasiliana nel periodo d'oro della Verve...

Pensa che quando Woods registrò il primo dei sette dischi fatti in cinque giorni, di quella saga che ho voluto chiamare Phil in Italy 2000, io avevo programmato quel primo incontro proprio con Irio De Paula, perchè pensavo che lui fosse adatto per Phil, che Irio fosse perfetto, un balladeur come lui... In quella registrazione, che ha per titolo "Encontro (on Jobim)" in duo proprio con Irio De Paula, Phil Woods imbracciò come al solito l'alto, ma quando Irio ha iniziato il primo arpeggio, in cui si sentiva lo scrocco della diteggiatura, Phil cambiò lo strumento ed incise l'unico disco esclusivamente al clarinetto della sua vita, un capolavoro, oltre che una rarità.

Per lo stesso motivo, per la sua grande tecnica poetica, ho voluto affiancarlo anche a Gianni.
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JfI: Io trovo molto belli i dischi di Gianni Basso con Irio anche perchè ci offrono un aspetto inedito di Basso. Come sono stati accolti dalla critica?

PP: Sono due i dischi con Irio. Il primo "Recado" con alcuni pezzi meno conosciuti della musica brasiliana, come quello che da il titolo al disco, e con molte note song della canzone americana, come Night and Day, mentre nel secondo, "Mais Uma", Gianni ed Irio suonano i classici di Jobim.

Devo dire che, tra le pochissime recensioni che questi dischi hanno avuto, ce n'è stata una che mi ha fatto molto male, uscita su Jazzit, dove quel disco ha ricevuto due misere stelle, solo perchè quei due giganti facevano sempre i soliti pezzi, questo diceva il critico in dieci righe, senza chiedersi assolutamente se suonassero in modo sublime o meno, ma solo perchè, secondo lui, suonavano semplicemente il già conosciuto...
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JfI: Questi lavori, quelli dedicati alla bossa ed alla canzone francese, ci offrono un profilo malinconico di Gianni Basso, ma lui com'era Paolo?

PP: In gioventù era molto grintoso e volitivo, non facile insomma, ma sicuramente un pò malinconico era. Lui si è innamorato del Jazz degli americani degli anni '50, quello di Stan Getz o Zoot Sims, un jazz dolce dal quale lui non ha potuto prescindere. Ma la musica di Gianni era un melange di forza e dolcezza, ed è questo che ha connotato uno stile personalissimo, unico, uno stile à la Gianni Basso, appunto.
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JfI: In effetti in questi dischi quello che sorprende è proprio l'aspetto dolceamaro di queste interpretazioni, come dice bene Vittorio Franchini nelle liner notes del 2° capitolo dedicato alla Francia "lui così carico di swing, nato per suonare Perdido piuttosto che Sophisticated Lady, con quella voce tumultuosa del suo sax tenore, con quel suo modo quasi aggressivo di prendere un tema e torcergli il collo, qui si lascia sedurre da queste melodie così nostre, da questi temi così familiari, così colmi di sofisticate seduzioni...".
Poi ci hai mostrato l'altra faccia di Basso, quella che conosciamo meglio, quella che swinga potente, quella più esplicitamente grintosa. Intendo quando hai affiancato il suo quartetto regolare a Fabrizio Bosso.

PP: beh, con l'aggiunta di quel sublime fiato nella front line, era impossibile immaginarsi altro.
Fabrizio ha sempre suonato come suona ora, cioè sempre al massimo, perchè è un genio della tromba, e mi ha fatto ridere un poco la promozione che gli ha riservato la Blue Note per il suo "You've Changed" del 2007, ma non è che Bosso era cambiato perchè lui era un grande balladeur anche prima, lui ha sempre saputo suonare una ballad, solo che la suonava con l'immensa tecnica che ha.

Pensa che lui si è dovuto far perdonare la tecnica, perchè tutti dicevano che suonava troppo facile, che è un paradosso, non a caso lui ci ha messo più degli altri per emergere con tutto il bagaglio musicale che aveva. Poteva succedere solo in questo paese, dove Bosso vince il Top Jazz solo quest'anno (2010), ma lui suona così da sempre. Senti per esempio la sua versione di "Estate", pur fatta con la tecnica della respirazione circolare, è impossibile non sentire insieme alla tecnica ed all'energia, una dolcezza infinita.
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JfI: Il loro primo incontro lo hai intitolato "Two Generation", indicativo della forza del progetto. Come li hai avvicinati in studio?

PP: Sì, volutamente due generazioni a confronto, perchè nonostante si conoscessero, tutti e due erano torinesi, nessuno li aveva mai messi a su un pari livello e anzi, Fabrizio non era proprio un profeta in patria, cioè non veniva spesso convocato dai suoi colleghi torinesi, e lui se ne rammaricava tanto. Non saprei dirti se era scattata la trappola dell'invidia, ma di certo sò che non vorrei vedere questi giochi meschini tra i jazzisti.

Fabrizio guardava con ammirazione Gianni. Abbiamo registrato sei o sette capolavori e dovevamo registrarne uno in studio dedicato a Clifford Brown, ma purtroppo Gianni ci ha lasciati prima, anche se abbiamo fatto a tempo a fare un concerto che andava in quella direzione, di cui ho la registrazione, anche se Gianni, che già non stava benissimo, non suona in tutti i pezzi,  ed infatti c'era anche Stefano Benetti al tenore. Ora devo riascoltarlo perchè potrebbe diventare un live postumo di questo nostro grande musicista. 


JfI: Due di quei dischi li hai dedicati a Chet Baker e Gerry Mulligan, con al pianoforte Andrea Pozza.

PP: Gianni Basso aveva sincera ammirazione per Andrea Pozza, che suonava anche nella sua Big Band e lo portò in studio da me, per la prima volta, con il progetto "A la France". Gianni mi diceva sempre "Andrea è un boppers vero, non sbaglia mai...". Non a caso Andrea ha sostituito Bollani nel gruppo di Rava e, all'epoca, sostituzione migliore di quella non c'era. Ora con Enrico c'è Giovanni Guidi, che è talentuoso, ma non è Pozza, indubbiamente. 
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JfI: Un altro disco particolare, sempre registrato con Fabrizio Bosso, è Cool Trane, dove hai chiesto a Basso di suonare le musiche di Coltrane, forse uno dei musicisti più lontani dal mood di Gianni Basso. Ce ne parli?

PP: Quel disco per me è bellissimo, sembra di sentire la front line del disco Blue Note, ma sono due soli fiati, non c'è un trombone, non c'è Curtis Fuller eppure loro riescono a muovere la stessa massa d'aria, hanno la stessa potenza emotiva del Blue Train classico.
Quando proposi a Gianni questo disco, sapendo benissimo che lui non era collocabile nello stesso filone di Coltrane, gli dissi subito che si sarebbe chiamato Cool Trane perchè lui era un coolster vero, ma che le musiche di Trane erano così belle che suonate con il suo stile sarebbero state nuovamente uniche. Alla fine è uscito un disco bellissimo ed anomalo, con un suono per niente "freddo", perchè Gianni non era codificato. Io l'ho sfidato, perchè conoscevo già una sua versione di Naima, l'ho coinvolto e la sua inventiva ed il suo innato senso melodico hanno dato nuova vita a quelle bellissime versioni.

Pensa che tempo fa, Bonandrini figlio propose a Gianni lo stesso progetto, dicendogli che lo proponeva a lui che lui era "notoriamente" un coltraniano... è ovvio che Gianni, molto educatamente rifiutò, e rideva molto mentre lo raccontava...
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JfI: Enrico Rava e Gianni Basso?

PP: Rava lo stimava tantissimo, io li ho messi insieme tante volte, ed a sempre funzionato tutto perfettamente.

Di loro due bisogna assolutamente ascoltare "Flashback", un capolavoro, con uno Stefano Bollani commovente, altro che spettacolare e divertente, quì è di una bellezza unica, questo è uno di quelli che devo assolutamente ristampare, ma quello delle ristampe è sempre un problema, perchè meno di 300 copie di un titolo non te le ristampa nessuno, ma se dovessi attuare un'operazione delle mie ristampe, ci sono almeno una ventina di dischi Philology degni di essere riportati alla luce, che significa 6000 dischi che, in questo paese, non venderesti in meno di dieci anni.
Lo stesso discorso vale per Radio Days, in duo con Renato Sellani, un capolavoro di dolcezza...

Ecco, questi aspetti della produzione mi fanno diventare matto, perchè io stampo dischi per amore, e sapere che oggi questi dischi bellissimi non circolano nemmeno più, francamente, mi fa male al cuore.
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JfI: Loro due li hai registrati anche in "Tea for Two", non a caso sottotitolato (another flashback); peccato non aver potuto sfruttare al meglio la magica sintonia dell'incontro di questi due grandi artisti in Philology

PP: Io dicevo sempre ad Enrico di utilizzare Gianni nel suo quintetto perchè, a livello internazionale, non c'era un tenore più espressivo di lui, io a Rava mi permettevo di dirglielo. Sarebbe stato un quintetto sensazionale, perchè Basso era ad un livello altissimo, non solo tecnico, ma anche creativo, la sua musica si era umanizzata al massimo. Ma a volte devi sottostare a situazioni non direttamente costruite da te, per esempio devi suonare con Mark Turner, perchè magari si muove alla ECM o cose così. Invece Basso, per i comuni addetti ai lavori, oramai era un pensionato, lui faceva parte dell'orchestra della RAI di Roma, ma non suonava praticamente più, perchè in televisione non c'è più jazz.

Ma Gianni, per chi sapeva vederlo con gli occhi dell'anima, era uno sanguigno, pensa che non intonava mai, metteva il collo d'oca sul sughero e, così come lo metteva, suonava. Era misterioso, magico e sempre intonatissimo. 
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JfI: Un ritratto finale di Gianni Basso in due parole?

PP: Gianni amava il jazz, perchè suonava con il cuore.

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Credits:

Label: PHILOLOGY
Catalog# W264.2
Format: CD
Country: Italy
Date of release: 2003

Recorded at Mu Rec Studio, Milano
on January 16, 2003

Gianni Basso (tenor sax),
Fabrizio Bosso (tp, flgh),
Renato Sellani (piano),
Massimo Moriconi (bass),
Massimo Manzi (drums)


Tracklisting


1)     I Love You - 4:35
2)     Body and Soul - 8:35
3)     Bob’s Buddy - 6:55
4)     Good Morning Heartache - 4:25



5)     Caravan - 8:13
6)     Over the Rainbow - 8:59
7)     East of the Sun - 4:27
8) That's All - 10:32



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Tutte le immagini sono di
Mimmo Rotella
1918_2006

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I dischi della PHILOLOGY,
potete richiederli a questa mail:
philology@philologyjazz.it


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