domenica 20 maggio 2012

O.M.C.I. _ Free Rococò _ 1976 _ L'Orchestra OLP 10011


«La geniale concezione musicale di Renato Geremia, andava al di là di qualsiasi genere ed è probabilmente il motivo per cui è sempre rimasto ai margini di un mercato che richiede invece prima di tutto ripetizione e fedeltà alle regole»


È più o meno con queste parole che Francesco Martinelli apriva il ricordo di Geremia, all’indomani di quel 31 ottobre 2011 che segnò la su scomparsa ed è, più o meno, il ritratto più esaustivo e sintetico che si poteva realizzare di uno dei più insoliti musicisti apparsi sul territorio italiano.


Renato Geremia, oltre che per il suo fantasioso lessico musicale, potrebbe essere definito “L’uomo Orchestra” del jazz moderno italiano, in quanto il suo multistrumentismo non si realizzava esclusivamente nella stessa famiglia di strumenti, ma ricercava in diversi settori che, apparentemente, non avevano alcuna parentela. Suonava infatti il violino, il sax tenore, il soprano, il flauto, il sax alto, il clarinetto ed il pianoforte con la stessa competenza e non avrebbe mai potuto sceglierne uno, a discapito delle altre infinite possibilità, senza provare una vera sofferenza, come raccontò a Marcello Lorrai che lo intervistò per il libro dedicato alla Italian Instabile Orchestra1:


«Passando davanti a un negozio di musica in una strada di Venezia, per combinazione più di una volta mi accadde di sentirne uscire la musica di un altista, che mi colpì molto. Chiesi al proprietario chi fosse, e mi rispose che era un certo Charlie Parker. Sempre per fatalità, in quel periodo capitò che mi regalassero un vecchio sassofono. Così a quindici anni cominciai a fare bebop che portavo ancora i pantaloni corti. Avevo già cominciato con la musica classica, e più tardi, verso i vent'anni, al conservatorio, Bruno Maderna, che sapeva che suonavo il sax, mi coinvolse nella registrazione della musica di un film che aveva composto: Maderna amava il jazz, lo sentiva in sintonia con quello che faceva, gli piaceva la diversità del jazz dall'accademismo. Forse perchè sono dei Gemelli, ma esplorare cose nuove è qualcosa che ho sempre sentito come una necessità, come qualcosa di profetico, e continuo ad avvertirlo quasi come un destino anche alla mia età. 


Così per me è stato naturale entrare in contatto con la dodecafonia, e poi ho trovato istintivamente una continuità fra il bebop e il free degli anni Settanta. Per conto mio, a casa, mi ingegnavo già a fare delle sperimentazioni, e sentivo un desiderio di esplodere che però non potevo soddisfare, perché non avevo le persone giuste che occorrono per fare certe cose innovative: suonavo standard, una cosa che mi piace moltissimo, ma avevo bisogno di fare dell'altro, sentivo un'evoluzione che doveva arrivare. Del resto a volte mi succede di suonare con dei musicisti che non conosco, però è come se li avessi già conosciuti, come se ci fosse un contatto medianico. Poi finalmente nel '74 ho avuto l'occasione della musica improvvisata con l'O.M.C.I.
All'inizio, quando nell'Instabile suonavo solo il violino, mi sentivo a disagio, perché ho l'esigenza di usare timbri diversi, ma adesso nell'orchestra suono anche il sax, il clarinetto... Mi pesa portarmi dietro tanta roba, ma se poi mi manca la sonorità di uno dei miei strumenti è una vera sofferenza. »


Renato Geremia, nato a Torino il 14 giugno 1930 ma veneziano d’adozione, è sempre stato un nome defilato nella storia del jazz, anche se le cronache del jazz riportano il suo nome già dal lontano 19512, dove veniva paragonato per il fraseggio a Dexter Gordon, e nel 19553 Franco Fayenz lo definì «…sincero, comunicativo, brillante e dalla fantasia sbrigliata, alto di tono, il più “negro” insomma! [sic!]», forse per la difficoltà della nostra critica d’inquadrare in un’etichetta certa la sua Arte o anche per il suo essere «uomo di estrema sensibilità, di grande gentilezza e di modestia addirittura eccessiva. Tratti umani che, così come il legame con la stagione del free, non erano certo i requisiti ideali per stare sotto i riflettori sulla scena del jazz italiano.», come ci ricorda appunto M. Lorrai.


Nonostante le scritture importanti, e sempre trasversali ai generi, come quelle con Django Reinhardt,  Kid Ory, Armando Trovajoli e Bruno Maderna, tra le altre, Geremia ha inciso pochissimo a suo nome e solo a partire dagli anni Settanta, periodo sinonimo di una seconda giovinezza.
Tra i suoi gruppi è doveroso menzionare l’Organico di Musica Creativa e Improvvisata (O.M.C.I.), formato con il batterista Tony Rusconi ed il contrabbassista Mauro Periotto, quando Renato Geremia era ormai un professionista avviato. Il trio è stato attivo dal 1975 al 1980 ed ha lasciato tre LP, tutti incisi per l’etichetta cooperativa “L’Orchestra” ed un CD postumo con le registrazioni complete del concerto alla Statale di Milano del 1975 [Splasc(H) Records CDH 511.2 – 1998]


Qualche tempo fa Riccardo, uno dei compagni d’avventura di Inconstant Sol, uno dei blog più curiosi ed attenti del panorama, ha messo in condivisione il primo album, quel “Contro” del ’75 che è una dichiarazione d’intenti già dal titolo. “Free Rococò”, che trovate in fondo a questo post è stato registrato alla fine del 1976 e precede il terzo e ultimo lavoro documentato del Organico, “Happy Days” del novembre 1978.


L’anno successivo c’è l’incontro tra Renato Geremia con la musica creativa europea, rappresentato dal live al Castello di Soncino nella versione “italiana” della ICP Orchestra, con Misha Mengelberg e Han Bennink dei soci fondatori, accompagnati da una folta compagine italiana tra cui ricordo Enrico Rava, Schiaffini, Trovesi e Baldo Maestri.


Da quel momento in poi, sarà naturale trovarlo in altre memorabili partecipazioni, come quelle de “IConcerti di un Certo Discorso”, che vedono eccellenti solisti del jazz accompagnati dalla Big Band della RAI.
Di conseguenza si aprono collaborazioni affini, come quella con Mario Schiano, Guido Mazzon, Schiaffini, Rusconi e Bruno Tommaso, documentata nel 1986 sull’album “TheUnrepetant Ones” e quella con l’Italian Instabile Orchestra ed i gruppi satelliti che ne nasceranno.


Gli ultimi anni registrano le tracce indelebili di Renato Geremia in compagnia di Michel Godard e Tiziano Tononi (The Multiphonics Tuba Trio _ Tre cose Splasc(H) Records CDH 635.2 – 1998), con la Nexus Orchestra in «quell’omaggio ai vent'anni del gruppo (allargato a dismisura a ricomprendere vecchi e nuovi componenti)» [E. Bettinello] che è Seize the Time! (Splasc(h) Records – CDH 841/842.2 – 2002), fino all’ultimo scoppiettante duo con Tony Rusconi (Attenti a quei due - 2008 & Live at S.A.S.S. - 2009, entrambi distribuiti da Rusconi stesso)


La musica è fatta di aggressività e di sentimento” dice Renato Geremia al giovane Livio Minafra che lo intervista a Parigi, durante la partecipazione della Instabile Orchestra al Banlieues Bleues Festival del 2003. Cos'altro aggiungere...


1 Italian Instabile Orchestra. Jazz come ricerca collettiva negli anni '90 – a cura di Marcello Lorrai e Roberto Masotti – Auditorium 1997
2 Musica Jazz Lug/Ago 1951
3 Musica Jazz ottobre 1955

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Credits:

O.M.C.I.
Organico di Musica Creativa e Improvvisata
“Free Rococò”

Label: L’ORCHESTRA
Catalog #: OLP 10011
Format: LP
Country: Italy

Recorded at Centazzo Studio,
Moruzzo, Udine, December 8, 1976

Renato Geremia (tenor sax, soprano, fl, vl, p., el. piano),
Mauro Periotto (bass),
Tony Rusconi (drums, perc)


Tracklisting:

1) V.B.P.
(percorsi per Violino, Contrabbasso, Percussioni)
2) Saxplicity


1) Free Rococò
2) Marcetta
3) Break in C


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Venezia, 9 agosto 1919 – Venezia, 25 ottobre 2006

sabato 12 maggio 2012

Dino Piana Quartet featuring Gianni Basso _ Jazz in Italy vol.9 _ EPD 47


Se Gianni Basso ha dovuto affrontare una lunga gavetta prima di ricevere i meritati e vastissimi consensi, cosa diversa è accaduta al suo amico d’infanzia e “concittadino” Dino Piana, che dal suo apparire con il Quintetto di Torino, nell’ambito del concorso radiofonico “la Coppa del Jazz” indetto dalla RAI nel gennaio 1960, in poco più di un anno incise ben quattro EP, di cui uno a suo nome, e due LP.


Sarà per via della particolarità del suo strumento, ma indubbiamente anche per la modernità del suo fraseggio, almeno per i suoni dell’epoca, sarà per la sua umana modestia, ma sicuramente anche per la sua indiscutibile professionalità, sarà perché il destino lo ha portato a scegliere la via del professionismo per bisogno, ma certamente anche per il suo coraggio nell’aver scelto d’imboccare quella strada, fatto è che possiamo considerare Dino Piana come uno, e probabilmente il migliore, dei trombonisti italiani di scuola moderna.


Dino Piana nasce a Refrancore, in provincia di Asti, il 03 agosto 1939.
Il suo nome appare per la prima volta sulle pagine di Musica Jazz nel luglio 1958, in un comunicato che annunciava la nascita del nuovo Jazz Club di Torino sul Notiziario della FIDJ. Piana era in compagnia di alcuni personaggi della vecchia guardia del Jazz torinese, da sempre riuniti sotto l’egida di Renato Germonio nello storico Hot Club di Torino, come il trombonista Riccardo “Dick” Mazzanti, il contrabbassista (e titolare di uno storico negozio di dischi) Piero Brovarone, il sassofonista Emilio Siccardi ed i giovani Enrico Cogno (che offrì i locali della sua abitazione come sede provvisoria del Club), Maurizio Lama ed Enrico Rava, tra gli altri.


Ma nei ricordi che Piana ha raccontato a Mazzoletti, l’amore per il jazz e la scelta di abbracciarlo per tutta una vita, si erano manifestati molto prima:
«I miei erano commercianti, avevano un’industria di dolciumi. Però era una famiglia che amava molto la musica. Mio padre suonava per diletto ed un mio zio dirigeva la banda del paese. La prima volta che presi la tromba in mano potevo avere quattro o cinque anni. Forse avevo un orecchio particolare, forse ero “dotato” per la musica, sta di fatto che, dopo un poco che soffiavo in quella tromba, chiesi a mio zio di farmi suonare nella banda.
Poi arrivò la guerra, la banda si sciolse, molti di quei musicisti vennero richiamati alle armi e io passai alla fisarmonica e poi al trombone, sempre con quella facilità con cui avevo imparato la tromba. Tutto ad orecchio, senza mai conoscere una nota di musica. Fu in quegli anni che io e mio fratello Renzo cominciammo a suonare nelle balere; era tutto solo per divertimento, anche perché l’azienda andava bene.»
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«Poi nel 1956 ci fu il crollo. La nostra piccola industria non riuscì più a sopportare la concorrenza delle grandi case di dolciumi. Avevamo anche comprato una grande pasticceria a Torino (dove Gianni Basso organizzò il rinfresco del suo matrimonio – n.d.c), ma le cose andarono male, anzi malissimo. L’azienda fallì e noi ci trovammo tutti sul lastrico. Furono anni molto duri. È stato un brutto periodo. Sono partito da casa solo con una borsa per cercare lavoro. Ho fatto il cameriere, il rappresentate di caramelle e di biscotti. Bisognava sopravvivere. Quei quattro anni, però, mi sono serviti, mi hanno fatto capire tante cose della vita, e forse nella mia professione mi sono comportato in un certo modo, perché quel periodo così triste mi ha aperto gli occhi. È stata una brutta batosta, ma se non ci fosse stata non sarei mai diventato un professionista, sarei rimasto quel dilettante sempre con il rimpianto di non aver mai visto avverarsi il proprio sogno.»


Ma torniamo ai documenti, che attestano in modo assoluto come Dino Piana sia tra gli uomini che hanno fatto diventare grande il nostro jazz.
Le prime incisioni documentate risalgono al 1960, e si riferiscono appunto a quelle effettuate col Quintetto di Torino negli studi della RAI, per l’occasione del primo concorso radiofonico. La Coppa del Jazz iniziò martedì 26 gennaio ed andò avanti nei suoi gironi per otto settimane. Il Quintetto era composto, oltre che da Piana al trombone a pistoni, da Gianni Dosio al sax tenore, Enrico Devià al piano, Nando Amedeo al contrabbasso, Franco Tonani alla batteria, e godeva dei pregevoli arrangiamenti di Gianni Coscia. La partecipazione al concorso è documentata da un LP della RCA (LPM-10083), su cui è riportata solo la traccia “Serenissima” di Gianni Coscia, e da un EP registrato a Roma in cui sono incisi altri due brani, oltre allo stesso presente in LP, “Blues the Most”, di Hampton Hawes e “Tributo a Frumento”, sempre a firma di Coscia.


Il 25 marzo del 1960, con la gara ancora in corso, Piana partecipò all’incisione del Vol.1della serie Jazz in Italy, voluta da Piero Novelli e Nicola Cattedra per la torinese CETRA. Poi, dal 29 aprile al 10 maggio dello stesso anno, registrò per la prima volta con il Quintetto più famoso del jazz italiano, quello capitanato da Basso – Valdambrini, prendendo il posto del validissimo Mario Pezzotta grazie al suo indirizzo più moderno.


Sempre per la CETRA, con i componenti del suo Quintetto di Torino, ma con Gianni Basso al posto di Gianni Dosio, incise il 30 settembre del ’60 il primo EP a suo nome, quello riportato come Vol.9 della serie Jazz in Italy. Nemmeno un mese dopo registrò con la cantante Helen Merrill in un quintetto da favola, composto da Gianni Basso al sax tenore, Renato Sellani al piano, Giorgio Azzolini al contrabbasso più Franco Tonani alla batteria, oltre al nostro, dando luce così al Vol. 8 della serie.


Ancora nel febbraio 1961, registrò tre brani con il quartetto che Jacques Pelzer portò al Festival Internazionale del Jazz, con il sassofonista belga al sax alto ed al flauto, Maurizio Lama al piano, Benoit Quersin al contrabbasso e Franco Mondini alla batteria. Questi, più altri sette, furono pubblicati nel Vol.13 della Jazz in Italy, serie che con quella pubblicazione festeggiava il primo anno di vita. Nel luglio dello stesso anno, partecipò a “Sonatina in Jazz”, breve suite di Franco Tonani con Oscar Valdambrini alla tromba, Gianni Basso e Giorgio Azzolini, inquadrabile nell’ambito della “thirdstream” europea, in quello che sarà pubblicato come il Vol. 15 della serie che, purtroppo, con i successivi due EP chiuderà i battenti.


Il resto è storia nota, con le assidue partecipazioni al Quintetto Basso – Valdambrini, declinato spesso in Sestetto, il suo primo LP da solista, registrato nel giugno 1962 in cui compare, probabilmente, la prima versione jazz di “Estate”, il brano di Bruno Martino che diventerà uno standard, la partecipazione al Festival di Berlino con il complesso di Pedro Iturralde, al fianco del chitarrista Paco De Lucia, collaborazione che portò alla pubblicazione del bellissimo LP Flamenco Jazz  (Saba/Mps 15143), che ebbe anche un seguito (Jazz Flamenco 2 – HIS HH 11-151).


Poi nel 1969 ci fu l’assunzione nell’orchestra RAI di Roma, con il conseguente trasferimento nella capitale del trombonista di Refrancore, che fu raggiunto nel ’71 da Oscar Valdambrini, che prese il posto di Baldo Panfili nella stessa orchestra, e con il quale creò il Quintetto Valdambrini – Piana, del quale restano titoli come Afrodite (VEDETTE VPA 8337) o il vol.34 della serie Jazz A Confronto della HORO, entrambi del 1976.


Di Dino Piana è impossibile non ricordare la famosa partecipazione alla colonna sonora del film di Elio Petri “Todo Modo”, diretta da un giovanissimo Filippo Bianchi e registrata al Sound Workshop ed allo studio Dirmaphon di Roma tra il 31 marzo ed il 1° aprile 1976 con Charlie Mingus, ma mai utilizzata dalla dal regista e ripubblicata postuma nell’album “Cumbia & Jazz Fusion” del contrabbassista di Nogales, e che state ascoltando in sottofondo.


Questo il ricordo di quella seduta che Piana ha lasciato alla penna di Valerio Prigiottidi AAJ: «Mi telefona un mattino Filippo Bianchi e dice "Devi venire subito, stiamo incidendo e non è venuto Jimmy Knepper" e io gli dico sì ma chi è il leader? Lui esita e poi mi fa "Mingus" e io gli rispondo "Tu sei matto! Io non vengo," poi mi ha detto "Ti prego vieni che quello manda per aria tutto...". Insomma erano le musiche per Todo Modo di Elio Petri e Bianchi mi pregava di venire dicendo che Mingus era già molto arrabbiato per il contrattempo. Figurati, conoscevo la storia di Mingus, era uno che menava, aveva rotto un dente a Knepper! Ma era un'occasione che non potevo perdere e alla fine ci vado terrorizzato, le gambe mi tremano, chissà cosa troverò.»


«C'era tutto il suo gruppo, Dannie Richmond, Jack Walrath... Lui se ne stava con un cappellone nero in testa e un sigaro enorme. Per fortuna c'era il sassofonista Giancarlo Maurino, almeno uno dei nostri, che mi guarda e senza parlare mi fa un cenno con la mano come per dire "qui si mette male". Ho pensato "Andiamo bene!". Abbiamo cominciato e malgrado i timori la seduta è andata liscia, pacifica! Poi ci siamo spostati nello studio di Umiliani, non ricordo per quale motivo, forse il suono e lì, anche se non era contemplato che improvvisassi, a un certo momento in un blues, dopo un assolo di Walrath, mi indica e dice "You play". Ancora più emozionato ho beccato la plunger che avevo lì per terra e ho improvvisato.»


Nel 1978 il Valdambrini – Piana diventa Sestetto, con l’aggiunta di Franco Piana e viene “ufficializzato” per il mercato discografico solo nel 1989, con un album omonimo (Pentaflowers CD PIA 004). Seguirà il CD “Conversation” (1991), in cui il sestetto si allarga a Big Band e nel 1994 esce “Romantic”, l’ultimo in compagnia dello storico trombettista, che morirà alla fine del ‘96. La collaborazione tra padre e figlio, invece, ha proseguito fino ad oggi, passando per “Together”, registrazione del 1996 in quintetto, “Interplay For 20”, del 2000, l’omaggio alla musica di Armando Trovajoli del 2008 e “SEVEN”, album appena pubblicato dalla Alfa Music, di cui le telecamere di Jazzit ci permettono di vedere un making of… 


Tra l’ultimo ed il primo disco, insomma, scorrono più di cinquant’anni della storia del jazz italiano, o del jazz suonato da un grande musicista italiano, se preferite.
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so long Dino!


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Credits:

Jazz in Italy vol.2

Label: CETRA
Catalog #: EPD 47
Format: EP
Country: Italy

Recorded at Turin, September 30, 1960
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Dino Piana (trombone),
Gianni Basso (tenor sax),
Enrico Devià (piano),
Nando Amedeo (bass),
Franco Tonani (drums)

Gianni Coscia (arr)


Tracklisting:

1) Tempo di Febbraio (F. Tonani)
2) Ballata per Quintetto (G. Coscia)


1) Night in Tunisia (D Gillespie)
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Thanks to Hiroshi
for the complete scans
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martedì 8 maggio 2012

Corto Circuito _ Ovvero di Musica & Jazz, Nuove Energie & Vecchi Rancori


Venerdì scorso, che sono uscito dal lavoro che c’era ancora il sole, ed un cielo che più cangiante non si può, come solo Roma sa regalare, ho deciso di fare alcune commissioni prima di rientrare. Dal momento che sono un cane sciolto, ovviamente, per me il concetto di prima il dovere e poi il piacere risulta anomalo, per cui, prima fermata l’edicola, per soddisfare prima l’anima e poi la pancia, come diceva il mio povero nonno ogniqualvolta si accendeva una sigaretta proibitagli dal medico.
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Entro e sto per alzare gli occhi sul ripiano di vetro in alto, dove il mio edicolante di fiducia tiene di solito le riviste musicali e, un istante prima che il muscolo retto superiore del mio occhio reagisca all’impulso del mio snaturato cervello, ho come un déjà vu: una delle mie due riviste preferite ha cambiato faccia, e mi sembra di conoscerla bene quella faccia.


Salto la spesa ed il bancomat per ritirare i soldi dell’affitto, non c’è tempo per queste stronzate, le sigarette no, MS morbide, due pacchi please, e me ne scappo subito in mansarda. Quella faccia mi ricorda qualcosa. Accendo il PC con un gesto automatico, che quasi anticipa lo stimolo, metto sul piatto una disco di Jacques Pelzer con Dino Piana al trombone e mi avvicino ai miei scaffali.


Forse era il ’63, penso, e sbircio meravigliandomi dell’ordine delle mie riviste; no allora il ’64, per forza, ma c’è ancora tanto colore, dico ai miei scaffali che immediatamente rispondono e mi restituiscono la soluzione all’enigma: anno XXI – n°1 (214) – Gennaio 1965 – Lire 250. Stesso font, anche se il rosso è più accanito, bordo bianco tutt’intorno, anche se ora la foto è a colori, sommario sotto la testata, solo la scritta musica è entrata nella testa della J di jazz, anziché appoggiarsi al suo braccio, ma non c’è dubbio, è lei!*
Una piacevole corrente elettrica scorre lungo tutta la mia schiena.


Il PC ronza poco distante, lancio mozilla ed inizio a sfogliare distrattamente il numero di maggio 2012, in un rutilante sfalzamento temporale. Il tema deve essere letto comodamente, sul divano o magari in bagno, penso, ma nemmeno arrivo alle schegge, dove l’occhio fa per intrattenersi con “la discussione corre sul web” che vedo sul mio schermo un aggiornamento di Mondo Jazz che si ruba tutta l’attenzione: “Il Gerlando Furioso


Inizio a leggere il post di Roberto, passo ai commenti dei soliti noti, salto al post di Gerlando Gatto sul suo “A proposito di Jazz” e, per fortuna, arriva subito forte dalle mie casse Work Song, interpretata da questo combo belga/italiano, con la stessa trascinante intensità dell’originale dei fratelli Adderley. Non mi stupisce affatto il to play fluently degli europei, checché ne dicano i soliti noti, ma mi smarrisco già dall’incipit della lettera aperta al direttore di MJ che espone formalità ed ostenta distanza, che cerca attraverso l’errore grammaticale e/o il refuso grafico di supportare una tesi denigratoria che dovrebbe partire esclusivamente dai contenuti, che ripete in un palloso maiuscolo ad libitum l’appellativo che, almeno storicamente, è impossibile negare alla rivista apparsa nelle edicole per la prima volta nel 1945
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Il tutto termina con una chiara avvertenza, che esclude qualsiasi forma di dialogo almeno ai polemisti titolati e che, in qualche modo, tenta di far capire che la libertà d’espressione dei blog è un valore che va salvaguardato rispetto alla chiusa nomenclatura della carta stampata. Peccato solo che “A proposito di Jazz” sia molto più assimilabile ad un web magazine, e quindi ad una versione elettronica di una qualsiasi rivista cartacea, che ad un vero e proprio web-log, che ha tutt’altre e specifiche caratteristiche.


Sono affranto e deluso, mi butto a peso morto sul divano, accendo l’ennesima sigaretta bionda e ricomincio a sfogliare.
Finalmente si affronta sotto la testata Jazz, senza remore e paure di perdita d’appeal di classe, il trasversale lavoro di Chailly con Bollani: «Non è jazz? Certo che non lo è, nel senso comunemente detto».
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Franco Cerri meritava un approfondimento sulle pagine di Musica Jazz da sempre; che sia apparso con questa nuova veste della rivista, forse non è un caso (non è sempre del 1965 quel bellissimo LP Columbia da cui avete tratto la cover dell’antologia allegata?). Lo stesso si potrebbe dire per altri musicisti italiani, penso a Cesàri, Rotondo, Volontè o Sellani, come per alcuni produttori dimenticati, e tra questi mi vengono in mente Sinesio, Piangiarelli e Fontana.
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Bertoncelli riuscirebbe ad affascinare con la sua scrittura anche se trattasse di un rotatore rigido, figuriamoci se parla semplicemente di rock-blues.
Anche Esperanza Spalding viene sdoganata, che di démoni così belli e musicali, ce ne fossero nei miei sogni…
Poi Franco D'Andrea, che più invecchia e più si rinnova, e Marta Raviglia, che fin dal suo primo apparire è stata una piacevole sorpresa e, senza tregua, ci continua ad offrire la sua mutevole ricerca.


Eccolo il cambiamento, inteso come scambio di potenzialità, come ricchezza da ricercare nel cross-sharing dei linguaggi e stì cazzi dei blasoni e dei diplomi scolastici:
Franco Cerri è un autodidatta, e vorrei proprio leggere una tesi che sminuisce il suo stile chitarristico perché non certificato da un diploma di conservatorio o dall’iscrizione all’albo dei chitarristi ufficiali.
Oppure, provate a spiegarmi voi perchè è meno blue il blues di una cantautore genovese? 


Ora, io non vorrei passare per quello che sta qui a prendere le difese di taluno attaccando tal altro, che non è mia intenzione e Luca Conti non ha certo bisogno di me, così come non aveva assolutamente bisogno del suo direttore Daniela Floris, che si difende benissimo e con grazia da sola, e che ha ricevuto la solidarietà del web quantomeno per la sua sacrosantissima libertà d’opinione. Tra l’altro, ho riletto la sua recensione al concerto di Berne a Bergamo, dopo aver saputo da Gatto che Daniela è la Dott.a Daniela Floris e, in tutta sincerità, non ho scovato alcuna differenza sul significato del suo testo tra la lettura pre e post laurea, nè tantomeno nella forma.


Prima di tornare al PC per scrivere queste righe, sfoglio con tenerezza quel vecchio numero del '65 e, già dal sommario, penso a quante affinità ci siano ancora dopo quasi cinquant’anni, non con la rivista in sé per sé, ma proprio con questo piccolo mondo antico.
Jazz europeo: un mito o una realtà, a firma di A Polillo; Il referendum del Down Beat; Il jazz milanese alla riscossa e, proprio in principio, in un riquadro in grassetto tra le lettere al direttore, campeggia un avviso ai naviganti di allora


Come dicevo, io non sono qui per difendere o attaccare nessuno, ma la mia impressione ve la voglio raccontare ed il fatto che ci sia un evidente fermento culturale attorno alla nostra comune passione, un’infiammarsi d’animi, una partecipazione attiva ed uno scambio continuo, è una nuova fonte d’alimentazione per ricaricare le nostre mai sopite energie, ed è anche un ottimo segnale, ma penso che se continuiamo a trincerarci dietro confini mentali, se scadiamo nell’offesa personale o nel parlarsi addosso, nell’inutile divisione  gerarchica tra cultura alta e bassa, tra jazz e non jazz, insomma, rischiamo che tutta questa energia ci si riversi contro, in un pericoloso corto circuito che brucerebbe le connessioni, anziché tentarne di nuove, ed il black-out è dietro l’angolo. 

Connettete gente, non combattete.


* se per caso ci fosse uno sbaglio sulla datazione della cover che ha fornito ispirazione alla nuova forma della rivista, diffido chiunque nel tacciarmi di dilettantismo e di mancata iscrizione all’albo dei coveristi e rimetto ogni responsabilità allo scaffale IVAR ( art. num: 837.566.09), tra l’altro fuori catalogo, che in via del tutto confidenziale mi ha fornito l’informazione.